Perché anche in Italia è arrivato il momento di dare un prezzo alle emissioni di carbonio

Il confronto tra gettito delle imposte ambientali ed esternalità negative prodotte indica che le imprese, nel complesso, pagano il 26% in meno di quanto dovrebbero.

Perché anche in Italia è arrivato il momento di dare un prezzo alle emissioni di carbonio

Articolo a cura di Free2Change

Il confronto tra gettito delle imposte ambientali ed esternalità negative prodotte indica che le imprese, nel complesso, pagano il 26% in meno di quanto dovrebbero.

Immaginate che il vostro vicino di casa inizi a scaricare ogni giorno i suoi rifiuti nel giardino di casa vostra, e che la legge gli permetta di farlo. I rifiuti sono maleodoranti, pericolosi e si decomporranno in un tempo praticamente infinito, ma il giardino è vostro, quindi avete ancora un’arma per fermarlo, o almeno indurlo a scaricare meno rifiuti: chiedere un compenso, un risarcimento economico per ogni chilo di rifiuti gettato nella vostra proprietà.

La carbon tax funziona più o meno allo stesso modo. Solo che i rifiuti sono invisibili, perlopiù inodore e si disperdono rapidamente, chi li produce e scarica siamo noi tutti e il giardino di cui parliamo è l’atmosfera.

Gli economisti vi direbbero che la CO2 prodotta dall’uomo è un’esternalità negativa, perché è generata da un’attività da cui qualcuno trae profitto danneggiando un bene comune (in questo caso l’ambiente), senza assumersi la responsabilità del costo. Tradotto: se qualcuno danneggia l’ambiente, contribuendo all’aggravarsi del cambiamento climatico, deve pagare i danni a tutti noi. È il succo del “Polluter pays principle”.

I dati World Bank indicano che, nel al 2017, solo il 15% delle emissioni globali di CO2 sono state tassate in qualche modo, mentre presto il dato dovrebbe superare il 20%, grazie all’entrata in vigore dell’Emission Trading Scheme (ETS) cinese, un sistema di permessi che ogni grande produttore di CO2 coinvolto deve acquistare per continuare ad emettere.

Fonte: World Bank
Fonte: World Bank

Se il dato percentuale non è incoraggiante, lo è ancor meno quello relativo al prezzo: tre quarti delle emissioni coperte da meccanismi di carbon pricing, cioè una vera e propria tassa o uno schema di scambio dei permessi (Emission Trading Scheme o ETS), vengono pagate meno di 10 dollari a tonnellata. Un prezzo troppo basso per rappresentare una minaccia ai combustibili più inquinanti: le centrali elettriche a gas , combustibile che genera meno CO2 ma è più costoso, diventano più competitive di quelle a carbone con un prezzo delle emissioni superiore a 15–20 dollari a tonnellata.

Il prezzo che la CO2 dovrebbe avere affinché l’obiettivo dell’accordo di Parigi venga rispettato, invece, si aggira tra i 50 e i 100 dollari al 2030, secondo i più importanti economisti del mondo.

Esistono forme di carbon pricing in Italia? Insomma. Sì, ma si tratta dell’EU ETS, un meccanismo entrato in vigore nel 2005 dapprima con una distribuzione gratuita dei permessi, poi introducendo un’asta e capace di coprire il 45% delle emissioni di 31 Paesi, tra centrali elettriche, voli interni all’Ue e industrie ad alto consumo di energia. Non male, se solo il prezzo non si attestasse da anni attorno (spesso sotto) i 10 dollari alla tonnellata.

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Un dossier del Senato ha messo in luce come in Italia non valga il Polluter pays principle, cioè chi inquina non paga (o non paga abbastanza): il confronto tra gettito delle imposte ambientali ed esternalità negative prodotte indica che le imprese, nel complesso, pagano il 26% in meno di quanto dovrebbero, il settore agricolo addirittura il 93% in meno, mentre tocca alle famiglie farsi carico di questi costi, pagando il 70% in più del dovuto.

Un altro studio, del Ministero dell’Ambiente, rivela che ogni anno lo Stato sborsa, in maniera diretta o tramite agevolazioni fiscali, 16 miliardi di Euro in sussidi ambientalmente dannosi, contro 15,7 miliardi di sussidi ambientalmente favorevoli.

Sì, ma nonostante le nostre accise sui combustibili fossili destinati ai trasporti siano tra le più alte al mondo (più di 200 euro a tonnellata di CO2), queste non vengono calcolate in base all’intensità di CO2 prodotta dai vari combustibili, ma sono in vigore per ragioni di bilancio (stiamo pagando ancora l’accisa per la Guerra d’Etiopia del 1935) e favoriscono addirittura il gasolio (più inquinante) sulla benzina.

Una carbon tax pari a 30 € a tonnellata genererebbe un gettito pari a 15 miliardi, che potrebbero essere reinvestiti nella green economy. Possiamo ancora permetterci di aspettare?


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