L’esigenza naturale di creare e distruggere di Santii

Due chiacchiere con Michele Ducci, compagno musicale di Alessandro Degli Angioli, per capire come è nato il progetto Santii dalle ceneri degli M+A.

L’esigenza naturale di creare e distruggere di Santii

in copertina, foto via Instagram @santii_________

Abbiamo parlato con Michele Ducci, che insieme ad Alessandro Degli Angioli, all’inizio di quest’anno ci hanno accompagnati nella loro svolta personale e sonora con il progetto Santii.

Ambizione e ricerca come componenti fondamentali della loro unione basata sulle differenze. Come in una promettente serie tv godiamoci questa S01, dal duo che in veste di M+A aveva già suonato sul palco del Glastonbury Festival, in attesa delle prossime — che non tarderanno ad arrivare.

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Doveva uscire il nuovo album degli M+A ed invece è uscito un nuovo progetto, non mi sento di chiedervi il motivo del cambiamento perché si è capito quanto sia stato un processo naturale, dovuto alla vostra voglia di sperimentare e alla vostra ricerca quasi maniacale. Non è stata una trasformazione imposta dal mercato e il vostro atteggiamento l’ha fatto capire.

Io e Alessandro abbiamo sempre vissuto i nostri progetti in modo bizzarro, siamo infatti

biograficamente portati a creare e distruggere

. Mentre scrivevamo ci siamo accorti di un forte cambiamento, soprattutto nel nostro approccio. La trasformazione è quindi risultata necessaria. È stato però un processo molto naturale, non potevamo che fare così, quindi abbiamo accettato questa cosa.

La cura dell’estetica è sempre stata una vostra peculiarità, specialmente nella creazione delle grafiche. Con il nuovo progetto Santii, anche il vostro stile personale ha subito un’evoluzione, è stata una causa o una conseguenza necessaria?

cover M+A

È interessante perché si tratta di tasselli che dalla musica vanno alle biografie personali. Io e Alessandro siamo sempre stati, prima di M+A e prima di suonare assieme, una via di mezzo tra ciò che eravamo e ciò che siamo adesso. Molto probabilmente in passato eravamo più trattenuti. Ogni processo di cambiamento implica una maturazione, adesso non siamo più frenati nel fare determinate cose e non sentiamo più l’esigenza di appoggiarci ad estetiche predefinite. Con Santii abbiamo voluto che il nome fosse una costante degli album, quasi per condurli più sul versante biografico che su quello discografico. Ed anche se si è trattato di un approccio discografico diverso, abbiamo voluto raccontare il nostro tempo nelle canzoni.

Il disco è costruito sui featuring, che in precedenza avevate sempre rifiutato. Così tante collaborazioni hanno portato ad altrettanti compromessi?

Devo dire di no. Prima molte collaborazioni le abbiamo rifiutate perché si sentiva della burocrazia, per esempio nel caso di Jamiroquai, nonostante fosse voluta. Mentre questa volta è stato un processo molto più punk. Spesso abbiamo mandato personalmente via mail o via Facebook delle cartelle con brani di pochissimi secondi, del tipo “Puoi farci quello che vuoi!” Quindi i featuring presenti sono persone che hanno davvero fatto questa cosa.

Però appena notavamo l’intromissione di mediatori non esitavamo a rifiutare, perché non ci interessavano collaborazioni dove la cosa più importante fosse il nome, volevamo un mescolamento. Siamo cambiati un po’ noi per andare verso gli altri artisti e viceversa. Infatti molti suonano in maniera diversa rispetto ai loro progetti personali.

Per realizzare un disco del genere è meglio avere idee precise in partenza o vivere il percorso a fianco degli artisti con cui si è deciso di collaborare?

Ci siamo accorti che non si tratta mai di “ho una pagina bianca e scrivo,” c’è prima un lavoro di cancellazione totale di informazioni. Soltanto dopo, almeno in questo caso, ci siamo sentiti liberi di lasciar lavorare gli altri artisti. Pur essendo un processo naturale risulta comunque molto più complesso e doloroso di quello sembra.

Avete sempre dichiarato che i vostri testi arrivano in un secondo momento rispetto alla musica, come in una improvvisazione jazzistica. È ancora così? Mi sembra che si sia quasi capovolta la situazione.

Infatti si è capovolta, in generale le voci e la parte lirica rimangono in una dimensione abbastanza inconscia ma c’è un lavoro molto più attento all’aspetto comunicativo. Nei prossimi progetti questo fattore sarà ancora più enfatizzato.

Anche adesso che siete in tour continuate a scrivere nei momenti liberi. Dato che alla base del progetto c’è una precisa idea di serialità, state seguendo delle linee guida che vi siete prefissati all’inizio del percorso?

Sempre nell’ottica di cambiamenti, abbiamo deciso di non fare un vero e proprio tour in questa fase estiva perché volevamo continuare a scrivere. Quindi faremo solo delle date, alcune in Europa e altre in Italia. Non ci interessava fare il tour degli ‘M+A che hanno cambiato nome’ ma di una band nata poco tempo fa.

Credo che in realtà la serialità sia dovuta alla maniera in cui io e Alessandro decidiamo di declinare le canzoni. Nel processo creativo le trattiamo proprio come delle forme di vita. Quello che succede è sempre dentro la non-regola che ci siamo dati, il senso che prende lo prende mentre viene fatto.

Tra gli annunci che hanno preceduto l’uscita del singolo, spiccava in particolare quella di un magazine. In un’intervista recente avete sottolineato come non voglia essere auto-promozionale, ma un’aggiunta. Si tratta di un magazine musicale scollegato dai vostri album?

Il magazine era nato perché abbiamo un sacco di materiale scritto, pensato per poter essere inserito in un format del genere. Si tratta di un cartaceo, in realtà ci sono tante tracce che spaziano da Santii in versione fumetto a cose che c’entrano direttamente come per esempio biologia.

È in fase di elaborazione, credo che chiunque sia appassionato di un progetto come può essere il nostro vorrebbe vedere sempre qualcosina in più. Abbiamo quindi deciso di farlo uscire appena ci sembrerà giunto il momento — si tratterebbe comunque di un elemento slegato, un’altra serie.

Il bello delle serie è proprio che possono essere distanti tra loro, ma sono comunque declinazioni di chi le sta facendo.

Adesso che avete preso il controllo totale della produzione (dal mixing alla parte video), potete dire di sentirvi totalmente rispecchiati nel risultato finale?

So che ti dovrei dare la risposta da rockstar e dire che sono soddisfattissimo, quindi in parte sì, ma è anche vero che c’è sempre un fondo di insoddisfazione. In realtà si tratta di un senso di distacco rispetto alle cose che fai e nelle quali ti concentri per troppo tempo, come ad esempio ascoltare la stessa canzone per un anno. Ed è probabilmente anche lo stesso motivo per cui continuiamo a scrivere musica, se trovassimo la quadra definitiva del disco perfetto saremmo ben contenti di smettere di fare musica in termini pubblici.

Solo per quanto riguarda il video di “Outsider,” vi siete ancora affidati ad una collaborazione, ma è costato qualche pollice in giù di troppo su YouTube. Il video non è stato interpretato nel modo giusto o anche voi non vi ritenete soddisfatti?

Ci potrebbe essere anche il mio tra i pollici in giù! Era partito con un’idea diversa, dovevamo girarlo noi poi invece l’abbiamo realizzato insieme ad altri e proprio per questo non è venuto come volevamo. È stato frainteso ciò che noi volevamo trasmettere, che non era la ragazza posh. È rimasta solo l’idea “micro-macro” a rispecchiare le nostre intenzioni iniziali.

Le premesse erano molto buone, avevamo scelto un posto che ci piaceva molto, ma è stato un grande spreco. Il nuovo video invece nasce in risposta a questo primo, infatti ci riteniamo molto più soddisfatti, perché non ci sono state virate verso cose che non ci piacevano.

Soffermandosi proprio sull’Episodio 01, l’abstract che ha seguito la sua uscita:

«La canzone Outsider è in armonico contrasto con le immagini: non è l’inno che rappresenta la protagonista, ma la canzone per chi accetta il dolore, per chi impara a saper stare fuori per un po’, non per il gusto di sentirsi unici, ma per inventare nuove forme di vita.»

Azzardo un parallelismo, anche voi vi siete tirati fuori da un progetto in cui avevate gravitato fino a quel momento per tornare con una nuova forma di musica. Il dolore è in qualche modo entrato in questo processo creativo?

Il dolore sì ma in una forma di fatica, elemento indispensabile in ogni processo creativo. Nonostante l’aver scritto con Alessandro canzoni good vibe, nel processo di creazione di un pezzo siamo diventati decisamente anti good vibe.

Il concetto di unione che percorre tutto l’Episodio 01, mi sembra che caratterizzi anche il vostro rapporto con la fan base, che viene gestito in modo molto naturale ed amicale. Questa vostra evoluzione ha portato una conseguente evoluzione anche del pubblico che vi segue?

Sì, ce ne siamo accorti soprattutto nella dimensione live. Al The Garage di Londra il 25 maggio, in apertura di Rina Sawayama, c’è stato un impatto inaspettato perché il pubblico sapeva le canzoni dell’album nonostante fosse uscito lo stesso giorno. In realtà il concetto di unione è partito in modo quasi etico-politico, il che sembra lontanissimo da noi, ma siamo molto attenti a quello che succede nel momento storico in cui viviamo.

Da un lato ci siamo accorti che soffia un vento abbastanza bizzarro, un ripiegamento nel localismo che non lascia spazio ad altro. Il fatto che non si sia fatto il Radar è all’insegna di questa cosa. Dall’altro il fatto che il vero fallimento sia pensare alle unioni non sulla base delle differenze ma sulla base della fusione. Questo invece è un po’ l’approccio che abbiamo avuto con i beat e che abbiamo in generale io e Alessandro. Fondamentalmente ci sono solo unioni possibili e possono essere realizzabili.

Il pubblico straniero ha reagito in modo diverso al cambiamento?

Tendenzialmente avrei risposto no, perché prima erano situazioni molto equilibrate. Effettivamente il tempo storico è cambiato molto in Italia, quindi devo dire che abbiamo visto un approccio molto diverso. Nel senso che a Londra ci siamo sentiti a casa per la prima volta, mentre per il primo concerto in Italia (in apertura a Rejjie Snow al Circolo Magnolia) abbiamo sentito mancare questa sensazione, ma è bello anche così.

È un qualcosa che può essere anche semplicemente legato ad un fattore linguistico. Effettivamente ha impressionato anche me sentire che le persone cantavano e si rendevano conto di quello che stavamo dicendo. Mentre a Bologna è successo il contrario, il pubblico non sapeva assolutamente ciò che noi e Rejjie Snow stavamo dicendo, e non sapeva neanche come reagire.

Pensavamo che non fosse un prodotto molto presentabile in Italia. Ma nonostante le premesse, su Spotify siamo stati accolti molto bene. Non abbiamo nessun problema con l’Italia ma sentiamo molta più comunicazione con l’estero. La differenza abissale è che spesso in Inghilterra ed in America le persone erano entusiaste di queste collaborazioni e conoscevano gli artisti, mentre in Italia si è dovuta fare la descrizione di chi fossero. Non per forza però ci deve essere una reazione diversa, magari possiamo aver apportato qualcosa in più facendo conoscere artisti che prima non si conoscevano.

Una vostra base importante è appunto in Regno Unito e in occasione delle elezioni del 4 marzo è comparsa sul vostro profilo Instagram la bandiera Europea. Come vedete la Brexit ora?

Finalmente parliamo di qualcosa di serio (ride). In realtà è una cosa che io personalmente sentivo già prima delle votazioni Brexit. Non si limita all’Inghilterra, ma è diffusa ed in parte legata a ciò che stavo dicendo prima riguardo ai localismi. Siamo chiaramente ancorati all’idea di appartenere al popolo europeo, ma credo allo stesso tempo che l’idea di Europa sia stata declinata in una maniera non proprio saggia.

santii for europa

Si è pensata l’Europa come sostanza e non come un insieme di popoli, non come un’unione di differenze ma come un qualcosa da unificare con il primato di qualcuno e la cancellazione delle differenze degli altri. Abbiamo però fatto questa cosa perché ci è sempre piaciuto poco il fatto che in Italia la dimensione politica fosse utilizzata esclusivamente dal generi come il cantautorato o comunque non dal pop e dall’elettronica. Mentre invece deve essere fatto assolutamente, anzi può permettere di sviluppare queste tematiche in maniera meno retorica

In Italia c’è un buco nel genere pop e voi avete sempre cercato di riempirlo. Questa scelta di coinvolgere rapper, è un tentativo di integrare un qualcosa che manca?

Il motivo per cui l’abbiamo fatto è esclusivamente musicale. Però riflettendoci in un secondo momento, quando sono in macchina e sento partire una traccia italiana – nonostante le produzioni italiane siano migliorate tantissimo ultimamente – nei cantati rimane una forte ripetitività. Chiaramente non si tratta di un fenomeno universale, però le voci sono sempre state pensate in una maniera bizzarra, spesso estremamente alte, e i messaggi sono veicolati in modi poco delicati, con una sintesi che invece gli Inglesi hanno.

Non ci sono tantissime realtà e quelle che ci sono non sono sufficientemente supportate, questo lo noto a prescindere dal lavorare in ambito musicale. Dove c’è un elemento vocale, non solo nel pop, l’approccio utilizzato è molto univoco. Ad esempio, una cosa che vediamo sempre in Inghilterra, e che tutte le volte ci commuove, è il fatto che andiamo a suonare in un posto e in quel posto la stessa sera suonano gruppi totalmente diversi. Il 25 maggio c’eravamo noi, Rina Sawayama e a mezzanotte c’erano i Black Beach — era pieno di persone diverse e si sono create atmosfere bellissime. Invece ultimamente in Italia vedo molto un aut aut: o uno o l’altro. Anche parlando da non insider del mondo musicale, penso proprio che per questo motivo sarebbe stato bello il Radar, avrebbe potuto congiungere diversità.

Il prossimo 29 giugno Santii si esibiranno a Bologna per il Covo Summer.


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