Il guru italiano della mobilità pedonale e ciclabile Matteo Dondé ci ha spiegato cosa bisognerebbe fare per trasformare Milano in una città a misura di biciclette.
Matteo Dondé è un architetto urbanista specializzato nella riqualificazione degli spazi pubblici e nella realizzazione di aree urbane a basso rischio di incidenti stradali.
Autore di varie pubblicazioni, Dondé ha partecipato come relatore a numerosi convegni in Italia e in Europa, dove ha tenuto delle lezioni in tema di pianificazione della mobilità ciclistica. Lo abbiamo intervistato per chiedergli cosa si dovrebbe fare per trasformare Milano in una città a misura di bicicletta.
Architetto Dondé, lei è reduce da quattro giorni di sperimentazione della zona 30 al quartiere Corvetto, dove è stato il direttore generale dei lavori. Ci racconti com’è andata.
Benissimo, è stato un successo oltre ogni aspettativa. I cittadini erano veramente contenti, soprattutto quelli abituati a muoversi a piedi, che si sentivano finalmente liberi di muoversi in un ambiente rispettoso della loro persona.
Lei è il primo progettista ad aver proposto delle sperimentazioni di zona 30 in Italia. Anche all’estero si organizzano iniziative del genere?
Le sperimentazioni, di zone 30 o di strade pedonali, sono molto diffuse in tutto il mondo. C’è da dire però che la gran parte dei paesi europei lavora da decenni sulla sicurezza stradale e sul disincentivo dell’uso dell’auto privata, con zone 30 diffuse su tutto il territorio comunale.
Per dire, Helsinki vuole mettere al bando le automobili dalla città entro il 2030, Oslo già dall’anno prossimo, Parigi vuole vietare le automobili non elettriche entro il 2030, Madrid ha ordinato il dimezzamento delle auto private, Utrecht sta facendo di tutto per dissuadere i cittadini dall’utilizzare la macchina. In Gran Bretagna le zone a bassa velocità sono diffuse ovunque, a Parigi contano di convertire tutta la città entro il 2020, in Germania il 70-90% della popolazione delle grandi città già vive in zone 30. Ti ho citato alcuni esempi, ma ce ne sono moltissimi – in tutta Europa la direzione è molto chiara.
In Italia invece?
Il nostro paese rappresenta un’anomalia da questo punto di vista. In Italia si contano circa 700 auto ogni 1000 abitanti, uno dei rapporti più alti tra gli stati europei, ed è destinato a rimanere tale finché non cambieremo il modo in cui progettiamo le strade.
Cioè?
Come dice l’urbanista Fred Kent, “se pianifichi la città per auto e traffico, otterrai auto e traffico. Se pianifichi la città per persone e per luoghi di qualità, otterrai persone e luoghi di qualità.” In Europa questo dibattito è nato ormai 50 anni fa e da allora sia i cittadini che le amministrazioni hanno premuto sempre di più in direzione di una città a misura d’uomo. Invece in Italia anche nel 2018 si continuano a progettare strade per le automobili anziché per le persone.
Milano ha compiuto alcuni passi avanti: nel 2015 sono state pedonalizzate le zone di Piazza Castello, via Paolo Sarpi e Corso Garibaldi, mentre i lavori della metropolitana lilla hanno permesso di riqualificare l’architettura stradale nei dintorni senza spese aggiuntive. Inoltre il traffico è stato ridotto dall’area C e la ciclabilità ha ricevuto un notevole impulso dai nuovi servizi di bike-sharing. Insomma, stiamo lentamente migliorando.
Sì, ma ancora non è sufficiente. A Milano il 60% di tutti gli spostamenti urbani è inferiore ai 3 chilometri (distanza percorribile in bici in soli 12 minuti), ma i milanesi che utilizzano la bici come principale mezzo di spostamento sono solo il 6% del totale. Perché ci sono così pochi ciclisti? Perché ci sono troppe automobili.
Quando a inizio maggio Mikael Colville-Andersen è stato invitato a Milano per parlare a una conferenza sulla mobilità sostenibile, ha scritto un tweet durissimo in cui definiva lo spazio urbano meneghino come “osceno” – “invaso” da automobili parcheggiate “con arroganza” in sosta vietata – e ha sentenziato la totale arretratezza del capoluogo lombardo rispetto al resto dell’Europa.
The #ArroganceofSpace is everpresent in #milan but engineering arrogance has extended to motorist arrogance. Obscene car invasion of public space everywhere. Sooo last century – and Milan is talking the urbanist talk but they have forgotten how to walk. pic.twitter.com/IBG1wmB9i2
— Mikael Colville-Andersen (@colvilleandersn) May 13, 2018
“Chiamano l’urbanista a parlare ma hanno dimenticato come si fa a camminare’”
Weird to be in a city that doesn't have the bike option on @google maps. pic.twitter.com/Wmfzs7PSar
— Mikael Colville-Andersen (@colvilleandersn) May 10, 2018
Allora immagini di avere di fronte a lei un progettista del comune di Milano che vuole costruire una città ciclabile: quali sono gli elementi architettonici che servono per incentivare la mobilità ciclabile?
Un reticolo stradale orientato alla ciclabilità è un progetto ampio, difficilmente suddivisibile in componenti architettonici. Ma ci sono alcuni elementi chiave che spesso si utilizzano per la moderazione della velocità, e quindi per favorire la sicurezza e la mobilità attiva: zone trenta, chicane, isole salvagenti per ridurre l’ampiezza della carreggiata, curve a corto raggio per ridurre la velocità, marciapiedi più ampi agli incroci, attraversamenti e incroci rialzati, sensi unici alternati con pinch point, parklet.
Questi ultimi sono solo un elemento d’arredo delle cosiddette Living Street, che introducono il concetto di spazio condiviso, dove chiunque può muoversi in libertà e sicurezza secondo le proprie possibilità e nel rispetto degli altri. Un’antitesi della separazione degli spazi stradali, che porta l’automobilista a credere di essere il padrone dello spazio in cui si muove. Nello spazio condiviso invece non esistono strisce pedonali e segnali di precedenza o di stop, semplicemente perché il pedone è libero di attraversare dove vuole. In questo modo il pedone torna ad essere il protagonista della strada, mentre l’autista deve viaggiare piano e rimanere costantemente all’erta, in quanto ospite del tessuto stradale.
Durante la sperimentazione a Corvetto le persone che mi hanno ringraziato di più sono anche quelle che normalmente non avevano uno spazio in cui muoversi liberamente e in sicurezza: i disabili, gli anziani, le famiglie con bambini. I bambini giocavano per strada, una cosa che oggi può sembrare assurda, ma così è sempre stato, ed è così che dovrebbe essere.
In Italia manca la cultura della città sicura. Le zone 30 da noi sono viste puramente come una restrizione, qualcosa che provoca fastidio: per questo bisogna raccontare i benefici delle zone 30. Le regioni, i comuni, le università e i giornali dovrebbero spingere il dibattito in questa direzione.
Allora ci racconti lei i benefici delle zone 30.
Sono tutti benefici connessi alla riduzione di velocità, dalla maggiore sicurezza per tutti gli utenti della strada (anche gli automobilisti), alla riduzione dell’inquinamento e del rumore. Non sono misure contro gli automobilisti, bensì a favore della convivenza tra tutti gli utenti della strada, per ridare qualità alla strada come spazio pubblico.
Mi aspettavo una lista più lunga.
La sicurezza da incidenti stradali, la salute, la vivibilità hanno un valore. A Torino dopo la realizzazione della zona 30 “Mirafiori” le verifiche dell’università hanno dimostrato la diminuzione dell’acquisto di sonniferi e di farmaci antidepressivi. Risultato: meno spese e meno stress per l’organismo.
Vogliamo fare un discorso puramente economico? In Italia si spendono 30 miliardi di euro derivanti dall’incidentalità stradale (quasi 4mila morti e 300mila feriti all’anno) a cui vanno sommati 15 miliardi circa di costi derivanti dall’inquinamento stradale: stiamo parlando del 2% del PIL. È anche dimostrato che gli edifici aumentano il proprio valore immobiliare se la strada su cui si affacciano viene trasformata in zona 30, e ci sono vantaggi anche per i piccoli negozi: è improbabile che una persona si fermi a fare acquisti in un negozio se lo supera in pochi secondi a bordo di un mezzo motorizzato. Infine, le zone 30 rendono più facile per i bambini andare a scuola da soli, e la psicologia sostiene da anni che un bambino che va a scuola da solo si rende indipendente, acquista più fiducia in se stesso.
L’Italia è uno dei paesi europei con la più bassa percentuale di ciclisti, eppure il numero di ciclisti deceduti in incidenti stradali è tra i più elevati al mondo.
Questo significa appunto che le strade non sono sicure. La geometria del reticolo stradale dovrebbe costringere un automobilista a moderare la velocità, ma questo obiettivo in Italia viene scarsamente raggiunto. Spesso l’intero reticolo stradale viene progettato in modo sbagliato, ed è anche per questo motivo che molte delle nuove piste ciclabili non vengono utilizzate.
Cosa bisogna fare per risolvere la situazione?
La prima cosa da fare è costruire un contesto generale “amico” della bicicletta, nel quale cioè sia possibile per un ciclista muoversi ovunque in modo confortevole e sicuro. Non conosco paese al mondo che sia riuscito a incentivare l’uso della bicicletta senza aver lavorato seriamente sul tema della sicurezza stradale e del disincentivo dell’uso dell’auto privata. Parigi, nel dichiarare di voler diventare la città delle biciclette, non prevede di realizzare migliaia di piste ciclabili, bensì di trasformare in 4 anni quasi tutte le strade a 30 km/h. La seconda è ridurre la quantità di auto in circolazione.
Immagino lei abbia ricevuto critiche al riguardo.
Sì, appunto perché siamo in Italia, un paese che come ho già detto rappresenta un’anomalia sullo scenario europeo. Mi chiedi perché in Italia non si sviluppa la ciclabilità: la risposta è perché si preme troppo sulla ciclabilità senza aver affrontato seriamente il tema della sicurezza e della riduzione delle automobili in circolazione. Una volta che si rispettano queste due condizioni, la ciclabilità viene da sé: la bicicletta si configura automaticamente – quasi per selezione naturale – come il mezzo di trasporto ideale. Se si continuano a realizzare percorsi ciclabili a discapito degli spazi pedonali si ottiene come risultato il conflitto tra gli utenti della strada, che purtroppo viene rilanciato dalla stampa contro l’utenza minoritaria. Così chiunque si muove nella carreggiata respira l’odio.
Piste ciclabili fatte male: dal gruppo Facebook Critical Mass – MILANO
Forse servirebbe un dato scientifico che attesti i vantaggi delle zone 30. Ha mai pensato di mostrare i dati degli incidenti avvenuti in una certa zona prima che fosse imposto il limite di 30 km/h e dopo?
Cerco di farlo per ogni mio progetto, perché è importante dimostrare con i dati la bontà dell’intervento realizzato. Nella riqualificazione della via Emilia Ospizio a Reggio Emilia ad esempio, abbiamo dimostrato di aver ridotto l’incidentalità di oltre il 60% in 5 anni, riducendo a zero feriti gravi e mortalità. Purtroppo nella maggioranza delle città italiane, compresa Milano, questi dati non sono pubblici. Per questo organizzo le sperimentazioni di zona 30, per far toccar con mano ai cittadini ciò che non posso dimostrare sulla carta.
Ma com’è possibile che una città ricca di open-data come Milano non abbia queste informazioni?
Dovrebbe averle, perché ogni volta che qualcuno rimane ferito in un incidente stradale, per legge il centralino del 118 deve chiedere l’intervento della polizia o dei carabinieri, che compilano il verbale con le circostanze dell’evento, tra cui il luogo in cui è avvenuto. Sono anni che assieme alle associazioni milanesi chiediamo la pubblicazione di questi dati, utili per capire quali sono gli incroci più pericolosi e per dare priorità agli interventi di messa in sicurezza, ma finora senza risultato.
Eppure di dati sui sinistri a Milano ce ne sono quanti ne vuoi, tutti meno che quelli georeferenziati. Nella città metropolitana di Milano solo nel 2016 si sono verificati 14.161 sinistri che hanno provocato 112 morti e 19.124 feriti, cifre superiori del 50% rispetto alla media nazionale, da cui discendono pesantissime spese di assistenza sanitaria. Se si potesse vedere come si distribuiscono queste cifre sul territorio si scoprirebbe che alcune delle riqualificazioni fatte a Milano negli ultimi anni hanno fallito in termini di sicurezza stradale.
Quindi è convinto che una mappa della pericolosità da incidenti stradali a Milano alimenterebbe il dibattito pubblico sulla sicurezza stradale e sul tema delle zone 30?
Certo, perché nel momento in cui un cittadino vede l’entità del rischio cui è esposto e fa il confronto con la zona 30 ben progettata – dove quel rischio scende a zero – be’, ti garantisco che la vuole anche lui.
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In copertina: una foto dal Cyclopride Day del 15 maggio 2016 a Milano, CC Fabio Beretta / Flickr.
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