Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.
Il lavoro di Alecio Ferrari ed Alex Fleming indaga la realtà di Port Talbot, una città nata come realtà industriale nel Novecento e attiva ancora oggi come tale. Come tanti paesi caratterizzati dalla presenza massiva di una sola industria, le persone vivono in uno stato di perenne e contemporanea certezza ed incertezza. Fintanto che l’industria produce, le persone lavorano. Ma cosa succederebbe alle persone e alla città nel momento in cui una industria che da lavoro a buona parte della popolazione dovesse decidere di chiudere? Su questa domanda parte il progetto di Alecio Ferrari e Alex fleming. Si tratta del primo capitolo di un progetto a lungo termine che i fotografi hanno iniziato da Port Talbot e che li porterà a indagare della vita di almeno altre tre città, tra cui Glasgow.
Ciao Alecio, da dove parte il percorso creativo che ti ha portato a Port Talbot?
Ho studiato graphic design al Naba per poi spostarmi in Cornovaglia, dove vivo attualmente, a Falmouth, un paesino dove c’è un grando polo universatario creativo. Mi sono laureato giusto qualche settimana fa proprio in graphic design.
La maggior parte del mio lavoro, però, è in campo fotografico. È sempre stata una grande passione che nel tempo mi ha portato anche a diversi lavori, soprattuto nel campo della moda, lavorandoci per un paio di anni — fino a quando non mi sono annoiato, non capivo più il senso di quello che stavo facendo. Vedevo solo la componente economica, ma nulla che avesse a che fare con una mia ricerca in termini di stile e gusto.
Il momento in cui ho cambiato direzione è stato proprio quando sono venuto qui a Falmouth, quando ho lasciato Milano. Ho trovato una situazione in cui metà della popolazione sono studenti di un polo universatario creativo e dunque persone che sostanzialmente parla la tua stessa lingua.
A parte lo spostamento fisico da Milano al Regno Unito cosa è stato a farti cambiare il modo di fotografare?
Milano è una grande città e le ispirazioni che ricevi da una grande città sono tante, gli input arrivano anche se stai fermo. C’è sempre qualcosa che ti accade attorno. Da quando sono qui, in un paesino piccolo, sul mare, immerso nella natura tra campagne e spiaggia, le ispirazioni sono diverse, e soprattutto le devi cercare tu, non ti arrivano così facilmente come mi succedeva a Milano. Se devi cercare è naturale che scavi soprattutto tra le tue passioni e le tue emozioni, quello che più ti interessa insomma.
Parlando di questa maggiore ricerca, come sei arrivato a Port Talbot, il paese oggetto del lavoro?
Ci tengo a ricordare, prima di parlare del progetto, che questo lavoro è a quattro mani. È stato studiato e realizzato da me e da Alex Fleming. La tematica è saltata fuori mentre si facevano ricerche sulle realtà industriali di inizio Novecento e in particolare le realtà post–industriali, ovvero quelle città o parti di città che hanno vissuto il boom industriale e che stanno cercando nuova vita, ora che le industrie non ci sono più; le varie zone cittadine che vengono recuperate, messe a nuovo.
Approfondendo questa ricerca abbiamo notato come alcune di queste zone o città siano ancora oggi industrializzate. Port Talbot è il caso esemplare. L’industria è ancora in funzione, ma oggi quello che più risalta è il fatto che si tratti della città più inquinata dell’Inghilterra. Port Talbot si trova a sud del Galles, con circa 30 mila abitanti, una storia industriale lunga circa 130 anni. La prima acciaieria venne costruita nel 1902. Raggiunse il picco massimo negli anni ‘60-‘70, con circa 60 mila impiegati per poi decrescere a circa otto, il numero di persone che lavorano nell’industria oggi.
Ad una città come Port Talbot, fortemente segnata dall’industria, si associa facilmente il problema dell’inquinamento. È questo il centro della vostra ricerca?
È il problema che ci ha fatto avvicinare a questa città, anche perché Porta Talbot è la città più inquinata d’Inghilterra e questo è sicuramente dovuto alla presenza dell’acciaieria. Abbiamo deciso di occuparcene perchè in pochi lo hanno trattato: a parte qualche giornale locale, le testate nazionali riportano poche notizie o informazioni su questo problema.
Le fotografie però non sembrano narrare direttamente del problema ecologico. Sono arrivati prima i temi o prima il luogo?
ll focus del lavoro è sicuramente il paese in sé. Effettivamente non è dato alle immagini il compito di parlare direttamente del problema inquinamento ma al saggio di accompagnamente. Mi piacerebbe anche dire che quello su Port Talbot è solo il primo di quattro capitoli, si tratta di un progetto a lungo termine che vuole indagare più realtà che vivono questo tipo di problematica. Il progetto ultimato si comporrebbe dunque di una rosa di realtà britanniche post-industriali dimenticate, dove il punto principale sarebbe la normalizzazione del problema.
Qual è la tua visione del futuro per la città?
La visione che abbiamo avuto noi è post-apocalittica. Port Talbot sembra non avere futuro per via della presenza massiccia dell’industria, anche perchè per il resto vive di piccole aziende locali. Bisogna dire che le persone che ci vivono vanno molto fiere del loro passato, e soprattutto tutte hanno da rendere conto a questo passato industriale. Molte persone lavorano ancora o hanno avuto familiari e parenti che hanno lavorato nelle acciaierie. Abbiamo avuto diverse occasioni di incontro con gli abitanti del paese, e a livello generale c’è una forte consapevolezza del proprio passato, ma essi stessi se devono parlare del futuro non vedono altro se non un grande punto interrogativo, sono in qualche modo spaventate perchè non sanno quello che potrebbe succedere.
Avete avuto modo di esporre questo lavoro durante una mostra. Come è stata la risposta da parte del pubblico?
Il pubblico sicuramente è stato più sorpreso dal rendersi conto che alcune problematiche sono effettivamente reali, e che si riflettono nella vita di tutti i giorni: la spiaggia di Port Talbot non è balneabile e sono frequenti le piogge di cenere. La terza problematica più rilevante sono i problemi alla respirazione che derivano dall’inquinamento dell’aria. Siamo partiti da qui, ma chiaramente speriamo di poter far conoscere la situazione a livello più ampio a lavoro ultimato.
C’è una foto che mi ha colpito, quella della persona vestita di arancione. C’è un motivo per cui l’avete ritratto?
Lui è una persona singolare, si chiama Captain Beany, è una sorta di eroe nazionale. A Port Talbot è sicuramente una celebrità. Ha 65 anni e da oltre trent’anni si alza e si veste d’arancione, è un personaggio che usa la sua immagine per campagne benefiche. Sulla sua testa si è fatto tatuare 65 fagioli con all’interno dei nomi — era per una raccolta fondi dove ognuno ha pagato 60 pound. Vive all’interno della sua abitazione che ha trasformato in una casa-museo in cui tutto è arancione.
Ma perchè i fagioli?
A ventotto anni battè il record di più ore passate all’interno di una vasca di fagioli, una sfida folkloristica. Rimase cento ore dentro questa vasca battendo il record mondiale. Da quel momento qualcuno gli suggerì di continuare su questa strada diventando poi una sorta di ambassador. Su Trip Advisor tieni presente che è praticamente la prima se non l’unica attrazione di Port Talbot. Tutti lo conoscono.
Alecio Ferrari, nato e cresciuto a Milano, trapiantato in Regno Unito. Laureato in Graphic Design (BA Hons) presso Falmouth University, la sua esperienza fotografica affonda le sue radici nella fotografia di moda, per poi spostarsi verso il documentario concettuale, che si porta dietro una forte ricerca estetizzante. Fortemente interessato nella produzione editoriale, sta lavorando alla creazione di un editor indipendente, True Pages, dedito alla pubblicazione e promozione di contenuti stampati fotografici — Libri, fanzine, pubblicazioni. Al momento sta lavorando su un progetto a lungo termine di 4 tappe sulle realtà post-industriali britanniche. Port Talbot è la prima fase. La sua prima mostra personale sul progetto reportagistico “A passage to India” è stata realizzata nel 2015.
Alex Fleming è un fotografo e filmmaker nato ad Oslo, Norvegia. La narrazione è sempre stata una parte incredibilmente importante del suo lavoro, e Port Talbot ne è un esempio. Il suo background fotografico contiene tratti che spaziano spazia dalla ritrattistica, al travel e al fotogiornalismo. Alex dice: “Le mie più grandi fonti di ispirazione sono Alec Soth e Gregory Halpern. I lavori di entrambi sono differenti nel risultato ma condividono una portata ed un significato di valore del soggetto-materia scelto evidente attraverso le loro serie di immagini. Alex ha appena completato la sua laurea (BA Hons) in Fotogiornalismo ed Editoria presso Falmouth University.