Buffon non dovrebbe fare il testimonial per Qatar 2022

Il volto dell’ex capitano della nazionale allontanerà ancora di più le critiche sulle condizioni di lavoro degli operai impiegati per l’evento.

Buffon non dovrebbe fare il testimonial per Qatar 2022

Il volto dell’ex capitano della nazionale allontanerà ancora di più le critiche sulle condizioni di lavoro degli operai impiegati per l’evento.

Il portiere della Juventus, Gianluigi Buffon, sembra destinato — secondo le sue dichiarazioni e tutti i quotidiani sportivi del paese — a giocare l’anno prossimo per il Paris Saint-Germain (PSG). La firma del contratto, con la certezza definitiva, era prevista per questo mercoledì ma a quanto pare degli intoppi burocratici e di altra natura la faranno rimandare fino alla fine di giugno. Buffon ha ormai 40 anni e chiuderebbe la carriera con un ricco ingaggio, che prevede uno stipendio di otto milioni di euro per i prossimi due anni e un ruolo da testimonial per i mondiali di Qatar 2022.

La squadra parigina infatti è dal 2011 di proprietà dell’emiro del Qatar Tamim Al-Thani — o meglio, è di proprietà del fondo sovrano dello stato del Qatar, ma in Qatar le finanze pubbliche e il conto in banca dell’emiro sono praticamente la stessa cosa. Il piccolo emirato è uno dei primi estrattori mondiali di petrolio e gas naturale, dunque l’emiro può contare su un patrimonio praticamente illimitato.

Negli ultimi dieci anni, la casa reale ha deciso di spenderlo in varie operazioni di grande importanza mediatica, per accrescere la notorietà e il prestigio del paese all’estero: operazioni anche di tipo sportivo, come l’acquisto del PSG o l’organizzazione dei mondiali del 2022 — per il quale, appunto, è stato scelto come testimonial un volto iconico del calcio, l’ex capitano della nazionale italiana Buffon. Per ospitare la manifestazione, il Qatar si è imbarcato in una campagna di opere pubbliche senza precedenti: in particolar modo, ovviamente, sono in via di costruzione vari stadi.

Le condizioni di lavoro nei cantieri dei 35.000 operai addetti, però, sono atroci.

Secondo molti report, indagini e dichiarazioni, centinaia di operai muoiono ogni anno nei cantieri da quando sono iniziati i lavori. L’ultima cifra ufficiale confermata dal governo del paese, secondo il Guardian, risale al 2012: già in quella data erano morti 512 lavoratori. Non si muore solo per incidenti in senso stretto, come cadute da impalcature precarie, ma anche a causa delle terribili condizioni climatiche: in estate, le temperature in Qatar possono superare quotidianamente i 40 gradi. Una buona parte di chi muore nei cantieri rimane vittima di infarti o altre patologie legate al clima infernale — fattore che, tra l’altro, facilita il declassamento ufficiale di queste morti da “morti sul lavoro” a “morti accidentali”: anche le stime non ufficiali sono quindi probabilmente al ribasso.

Il Qatar è molto restio a rilasciare dichiarazioni ufficiali riguardo questo tema. Il 90% degli abitanti del paese sono immigrati dai paesi del sudest asiatico che lavorano senza praticamente nessuna tutela sociale o sindacale. Gli indiani presenti nel paese sono più del doppio degli stessi qatarioti, che però detengono tutta la ricchezza: un sistema distopico, che si basa sullo sfruttamento del lavoro da parte di una classe sociale ricca per diritto di nascita.

al-thani
Tamim al-Thani con John Kerry (a sinistra), via Flickr

Nel mondo sportivo però nessuno sembra mettere seriamente in discussione l’approccio del Qatar alla competizione: una petizione per il boicottaggio dei mondiali ha raccolto meno di mille firme. La minaccia più seria allo svolgimento della manifestazione sportiva nell’emirato è arrivata a causa delle tensioni politiche con un potente vicino, l’Arabia Saudita, che l’anno scorso ha boicottato il Qatar. In quel caso, qualcuno aveva anche alzato un sopracciglio riguardo le presunte collusioni del Qatar con vari gruppi islamisti attivi nella guerra in Siria. Le minacce della FIFA, che ventilava di assegnare il mondiale a qualcun altro per la troppa “tensione politica,” sono rientrate con il progressivo disgelo del clima politico tra i paesi del Golfo.

La sensibilizzazione al tema dello sfruttamento del lavoro, però, è molto importante, soprattutto in un’occasione come questa: i mondiali sono la quarta manifestazione sportiva al mondo per rilevanza economica, e negli ultimi anni hanno conosciuto un ampliamento del loro pubblico, con vari paesi prima disinteressati al calcio che, per un motivo o per l’altro, stanno affacciandosi al mondo di questo sport — come, appunto, il Qatar.

Il calcio, che in Europa è ancora lo sport popolare per eccellenza, può essere un importante mezzo di consapevolezza, soprattutto attraverso i suoi volti più noti, come Buffon, le cui parole possono avere un potere di persuasione molto più forte rispetto a quello della maggior parte dei politici o dei giornalisti. Assicurandosi la faccia di Buffon, il Qatar si assicura anche un ulteriore passo verso la messa a silenzio delle critiche al proprio comportamento.

Il Khalifa Stadium a Doha, via Flickr
Il Khalifa Stadium a Doha, via Flickr

Il boicottaggio, o almeno una forte critica da parte di chi gioca o segue il calcio verso la tirannia dell’emirato, sarebbe un colpo importante in un’epoca storica in cui i diritti del lavoro sono messi in discussione in tutto il mondo, sia nei paesi sviluppati che in quelli “in via di sviluppo.” Ma il calcio si è distaccato sempre più dal parlare di diritti sociali o civili: non sono più i tempi di Socrates, uno dei più grandi talenti brasiliani di sempre, noto per il suo impegno politico negli anni Settanta e Ottanta.

Non è la prima volta che la Coppa del mondo finisce nel mezzo di controversie politiche, e che governi autoritari provano a usarla come mezzo di propaganda: i mondiali del 1978 in Argentina, ad esempio, si svolsero nel momento peggiore della dittatura di Videla, con i generali che facevano bella mostra di sé allo stadio mentre a pochi chilometri di distanza i prigionieri politici venivano torturati e uccisi con i famigerati voli della morte.

In quell’occasione i generali ottennero solo parzialmente il loro scopo: l’Argentina vinse la Coppa, ma le critiche internazionali furono fortissime. In questo caso invece, probabilmente il ruolo di Buffon come testimonial rischierebbe dare ancora più forza e legittimità alla propaganda di quello che è a tutti gli effetti un’autocrazia e uno stato di apartheid.


In copertina: foto via @gianluigibuffon / Twitter

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