Leggi e referendum non bastano per garantire il diritto all’aborto
Oggi, in Irlanda i cittadini decideranno se legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza, attualmente perseguibile penalmente e punibile con fino a quattordici anni di carcere.
in copertina: illustrazione di Anna Matilde Sala per the Submarine
Oggi, in Irlanda i cittadini decideranno se legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza, attualmente perseguibile penalmente e punibile con fino a quattordici anni di carcere.
Intanto, le donne irlandesi compiono un vero e proprio viaggio della speranza verso le cliniche del Regno Unito per sottoporsi all’aborto: spesso giovani e sole, visto il costo dell’operazione non possono permettersi di passare la notte in hotel dopo l’intervento e trascorrono il ritorno in aereo temendo un’improvvisa emorragia, o peggio, che nel paese ultracattolico in cui vivono qualcuno possa scoprirle e biasimarle, a cominciare dai loro stessi familiari.
L’Italia, come l’Irlanda, è un paese profondamente cattolico, ma — a differenza che nell’isola di smeraldo — l’aborto è legale.Il 22 maggio del 1978 entravano in vigore in Italia le Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, meglio conosciute nel loro insieme come legge 194, grazie alla quale è stato legalizzato l’aborto, da quel momento non più considerato come un reato perseguibile penalmente. La legge consente alla donna che voglia sottoporsi all’IVG – Interruzione Volontaria di Gravidanza – di rivolgersi ad una struttura pubblica nei primi 90 giorni di gestazione. Secondo i dati ISTAT, a ridosso della legge, nei primi anni Ottanta, il numero di IVG superava i 230mila casi all’anno, mentre nel 2016 si è ridotto a 84.874.
Il fatto che sia legale, però, non vuol dire che abortire in Italia sia Facile. In generale, la prassi per ricevere un aborto in Italia è molto lunga e faticosa: si parte dal medico di fiducia e dai consultori familiari, che dopo un colloquio con l’interessata rilasciano un certificato che ne attesti effettivamente la volontà, dopo i sette giorni previsti dalla legge per evitare un qualche ripensamento. Legge che non è ovviamente valida per casi urgenti come un serio pericolo di vita per la donna, dove è consentita l’interruzione della gravidanza anche superati i novanta giorni canonici: il cosiddetto aborto terapeutico.
Il primo problema che una donna si ritrova ad affrontare nel momento in cui decida di interrompere la gravidanza in Italia riguarda i medici obiettori di coscienza. Nel 2016 il Ministero della Salute ha dichiarato che il numero dei medici obiettori è aumentato del 12% negli ultimi dieci anni, arrivando alla quasi totalità dei ginecologi obiettori in regioni quali Molise (93,3%), Basilicata (90,2%) e nella Provincia Autonoma di Bolzano (92,9%). In Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia e Sicilia la percentuale supera l’80%, oltrepassando il 50% anche in tutte le altre regioni, eccezion fatta per la Valle d’Aosta, dove scende sensibilmente al 13,3%. Considerando quindi che in media, in Italia, solo il 30% dei medici risulta favorevole alla firma del certificato essenziale per il proseguimento – ma diciamo pure l’inizio – della terapia abortiva, il diritto di scelta risulta compromesso fin dal principio.
Una volta ottenuto – miracolosamente – il lasciapassare, le opzioni che si presentano sono due: sottoporsi ad un aborto farmacologico oppure ad uno di tipo chirurgico. Nel 2010, non senza polemiche ed opposizioni, è arrivata la RU486, la pillola abortiva allora già in commercio da vent’anni in trenta paesi del mondo. La pillola, a base di mifepristone, può essere somministrata esclusivamente in ospedale, a discrezione della Regione se in day hospital o con un ricovero di tre giorni (tempo utile per l’espulsione dell’embrione), e va assunta entro la settima settimana di gravidanza. Lla mancanza di letti per il tempo necessario di 72 ore e le liste d’attesa lunghe spesso però si scontrano con le tempistiche dell’aborto farmacologico, la cui attuazione non può essere portata a termine oltre il quarantanovesimo giorno di gravidanza.
Trascorso tale periodo di tempo, l’unica via disponibile è quella chirurgica. I metodi più utilizzati per l’IVG nei tempi consentiti dalla legge sono l’isterosuzione, durante la quale il materiale embrionale viene aspirato fuori dall’utero tramite una pompa manuale (MVA) o elettrica (EVA), e il famigerato raschiamento, che comporta la dilatazione della cervice. Tutti i metodi concessi e legalizzati, farmacologici e chirurgici, sono – o almeno dovrebbero – essere assolutamente sicuri per la salute fisica della donna. Le principali complicanze che possono emergere dall’intervento chirurgico sono emorragia e lesioni ai genitali e agli organi interni, mentre per quanto riguarda la salute mentale, l’American Psychological Association ha dichiarato che sottoporsi ad un aborto nel corso del primo trimestre della gravidanza comporta lo stesso rischio che portarne a termine una indesiderata.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2017 ha reso noto che, nel mondo, sono circa 22 milioni gli aborti non sicuri: ogni 100mila interventi condotti senza il rispetto delle norme igieniche o da persone non competenti muoiono 30 donne nei paesi sviluppati, 220 in quelli in via di sviluppo e 520 in Africa Subsahariana. Questo perché le donne ricorrono all’aborto non sicuro a causa dei medici obiettori, dei lunghi e obbligatori tempi di attesa e per motivi economici e sociali.
Uno dei motivi principali per cui l’aborto fa tanto parlare di sé è proprio lo stigma sociale, che persevera nelle società contemporanee e presenta la donna che vi si sottoponga come una moderna Medea.
Per fare un piccolo e provinciale esempio, basti pensare alle associazioni pro-vita che fanno pattuglia davanti ai nostri ospedali nei giorni di visita pre-aborto con cartelloni e volantini raffiguranti feti morti accanto a foto di neonati degni di Anne Geddes, con la scusa di pregare per la “Vita”. A livello nazionale, solo recentemente sono stati affissi nelle strade di cento province manifesti ben visibili contro la 194 e a Roma è iniziata la campagna #stopaborto, che ha addirittura additato l’interruzione di gravidanza come una delle cause principali del femminicidio.
Tra il 2009 e il 2010 Claudia Mattalucci, ricercatrice in antropologia culturale e insegnante presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca, ha svolto in Lombardia una ricerca sull’attivismo pro-life, parte di un più vasto lavoro che riguarda le rappresentazioni, le politiche e le esperienze dell’aborto: Maternità immaginate. Le donne, il loro corpo e la “vita” nell’attivismo pro-life (Lombardia) concentrato in particolare sul Movimento per la vita italiano, nato alla fine degli anni ’70 per contrastare l’aborto.
Mattalucci rivela innanzitutto che all’interno di esso i ruoli direttivi sono affidati agli uomini, mentre le donne operano dei Centri di Aiuto alla Vita (CAV). Lo studio però viene condotto principalmente sulle donne, che l’antropologa divide in due generazioni: le over 70, entrate nel movimento fin dalla sua origine e ora madri e nonne, e le under 35, giovani per la maggior parte non sposate diventate attiviste dopo l’approvazione della legge 40/2004 sulla procreazione eterologa.
In secondo luogo, l’autrice pone in rilievo il fatto che nell’archivio multimediale degli attivisti il corpo della donna non viene praticamente mai rappresentato, per lasciare spazio al feto o all’embrione. Così che in campagne pro-life che riguardano il corpo della donna, questo non è mai davvero presente: le donne non sono protagoniste, ma lo è il feto, visto come autosufficiente e autonomo. Il corpo materno diventa allora un “generoso nido che accoglie”, una culla e un contenitore naturalmente accogliente ma potenzialmente insidioso, rappresentazione femminile che vede la donna come responsabile dell’aborto ma allo stesso tempo vittima di una società che non ha saputo aiutarla nella scelta di proseguire la gravidanza. L’aborto è una violenza inaudita a livello psicologico ma anche per la stessa concezione cattolica della nascita, secondo cui la capacità di dare la vita non appartiene interamente a uomini e donne, ma ogni figlio è un dono che non può essere rifiutato.
In ultimo, Mattalucci riprende da Amanda Signorelli il concetto di “melanconia della maternità”, espressione che indica il senso di disagio e di inadeguatezza che deriva dallo scarto tra il proprio percepito “dovere” e i comportamenti concreti dell’individuo. Le stesse partecipanti al movimento, secondo Mattalucci, spesso sono sole e in età fertile non hanno avuto possibilità di procreare. Il loroconsiderando anche che conservano la verginità fino al matrimonio) e si ritrovano ormai in menopausa ad accudire nei Centri le altre donne, mamme loro stesse di queste mancate mamme.
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