Dentro il St. Mary’s Hospital Lacor, uno dei più grandi ospedali no-profit di tutta l’Africa orientale

Il Lacor ospita una vera e propria città nella città, in cui vivono oltre 3000 persone fra parenti dei malati e operatori sanitari, insieme alle loro famiglie.

Dentro il St. Mary’s Hospital Lacor, uno dei più grandi ospedali no-profit di tutta l’Africa orientale

All’interno del suo complesso il Lacor ospita una vera e propria città nella città, in cui vivono oltre 3000 persone fra parenti dei malati e operatori sanitari, insieme alle loro famiglie.

Nel 1959 nasce nella periferia di Gulu, in Uganda, l’ospedale Lacor, per offrire cure a chi non se le poteva permettere senza discriminazioni sessuali o politiche, in un Paese dove l’accesso alla sanità non era — e continua a non essere — garantito a tutti i cittadini. L’ospedale, fondato grazie ad alcuni missionari comboniani, si è poi sviluppato per l’impegno di una coppia di medici italiani, Piero e Lucille Corti, e dopo quasi sessant’anni è ancora un punto di riferimento per la popolazione della zona.

Il Lacor segue una precisa linea guida, in cui salute ed educazione sono poste al centro — le donne e i bambini, le due categorie più vulnerabili, sono il fulcro dell’attività medica. Occuparsi di salute, però, non significa soltanto guarire i bisognosi. Il St. Mary’s Hospital ritiene necessaria la tutela del benessere e il lavoro del Lacor ha un forte impatto sociale e ambientale. Concretamente, il rispetto per l’ambiente avviene grazie alla presenza di un sistema di depurazione delle acque reflue formato da quattro lagune e una palude artificiale. Inoltre, il Lacor possiede un inceneritore per smaltire i rifiuti potenzialmente infetti.

Le cure, comprese le visite specialistiche, hanno prezzi molto ridotti per poter essere accessibili a tutti. Le prestazioni sono quasi gratuite per le fasce a rischio, ovvero donne e bambini fino ai 6 anni, e hanno un costo simbolico onnicomprensivo di 1000 scellini, circa 25 centesimi di euro, che copre tutte le spese — l’onnicomprensività è fondamentale perché molte volte, temendo che il prezzo aumenti, i pazienti non iniziano nemmeno le terapie. Gli altri, invece, sono tenuti a pagare cifre contenute in base alle loro possibilità. Alla cassa è affisso un pannello con scritti i costi di ogni prestazione, suddivisi in tre fasce: standard, institutional e private.

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“La fascia dei privati copre soltanto meno del 2% della spesa annua dell’ospedale,” ci spiega Gianfranco Piantelli, direttore amministrativo. Il Lacor ha bisogno di 5 milioni di euro l’anno per stare in piedi: il governo ugandese contribuisce alla spesa, fornendo il 7% dei soldi necessari a mantenerlo attivo, ma la maggior parte dei fondi arriva da donazioni estere che coprono il 62% del necessario. Un ruolo importante per il finanziamento è giocato dalla Fondazione Corti, nata nel 1993 proprio per sostenere economicamente e fornire aiuti al Lacor. Gli altri soldi, invece, sono frutto delle rette dei pazienti e degli studenti, insieme ad altre entrate locali. I fondi servono non solo per garantire medicine e materiale medico, ma anche per la manutenzione, il carburante e ovviamente personale, pulizie e spese di amministrazione.

L’ospedale ogni anno riesce a visitare più di 269.000 persone provenienti non solo dall’Uganda, ma anche dai Paesi limitrofi. Inoltre, vaccina 60.000 bambini, cura 15.000 persone malate di AIDS, di cui 7.000 con antiretrovirali, e conta oltre 6.650 parti. Dei 269.000, i ricoveri annui sono 34.000, la maggior parte dei quali è in pediatria. Gli altri pazienti sono ambulatoriali.

All’interno del suo complesso il Lacor ospita una vera e propria città nella città, in cui vivono oltre 3000 persone fra parenti dei malati e operatori sanitari, insieme alle loro famiglie. È presente anche una guesthouse dove soggiornano i medici e i visitatori. In totale, i dipendenti ugandesi sono 624, e gli studenti che seguono le lezioni 743.

Per arrivare al Lacor bisogna percorrere la strada che da Gulu porta al Sud Sudan. Dopo qualche chilometro, sulla destra, si staglia un complesso circondato da un muro con del filo spinato e una grande cisterna: il Lacor. Di fronte all’ingresso è radunato un gruppo di boda-boda, i moto taxi collettivi che trasportano i pazienti e le loro famiglie in città. Oltrepassato il cancello in ferro battuto, alla polvere rossa si sostituisce una pavimentazione in cemento. Il benvenuto è dato da un monumento in ricordo dei coniugi Corti e di Matthew Lukwiya, medico pilastro dell’ospedale morto nel 2000 di ebola. Sulla sinistra ci sono i diversi reparti, dalla maternità alla chirurgia, da pediatria a medicina generale. Di fronte, invece, c’è il campus: il Lacor è un ospedale universitario che collabora con la facoltà di Medicina dell’università di Gulu.

Il Lacor ne ha passate tante ma non ha mai arrestato la sua attività, nemmeno durante epidemie o conflitti. È stato preda di saccheggi e devastazioni e ha dovuto dotarsi di mura come una vera e propria cittadella medievale, così come è stato costretto a diventare autosufficiente. Il complesso possiede pozzi d’acqua e squadre di tecnici che lavorano al suo interno, così come alcuni camion donati dai vigili del fuoco di Milano per domare gli incendi.

Il Lacor, oltre alla sede principale, possiede tre centri dislocati — Pabo, Opit e Amuru — a circa 40 chilometri di distanza, per poter raccogliere i pazienti che non riescono a raggiungere Gulu. Muoversi, infatti, è spesso difficile, sia per le strade impervie, piene di buche, sia per l’impossibilità di molti a pagare un mezzo.

I reparti sono ospitati in strutture in cemento, circondate da patii e cortili dove i parenti dei malati riposano all’ombra, in attesa di avere informazioni. Nel caso sia necessario un ricovero le famiglie dei pazienti si stabiliscono per tutto il periodo del ricovero nei cortili dell’ospedale e si occupano di preparare i pasti, lavare i panni e fare compagnia ai loro malati — quando una persona si ammala e va in ospedale, non è mai sola. I parenti indossano i loro abiti migliori e lo accompagnano. Questa usanza ha fatto sì che nell’ospedale nascesse un vero e proprio villaggio. Le donne si prendono cura dei bambini, cucinano e lavano pentole, piatti e panni che stendono sul filo spinato, i bambini corrono e giocano per i cortili.

Oltre ai reparti, ci sono altre strutture che ospitano gli uffici amministrativi e altre che fungono da casa per il personale. Verso il fondo del complesso ci sono le cucine, una bottega che vende prodotti alimentari e un baracchino MTN, che oltre a vendere sim telefoniche è una vera e propria banca. Alcune donne cucinano per la propria famiglia, altre preparano piatti che vendono alle famiglie dei pazienti. Un susseguirsi di pentole e fornelletti, dietro cui si intravedono i lavandini. Una serie di donne sta pulendo i piatti, e di fianco a loro altre donne sono chinate a lavare i panni in grandi catini. Alcune mamme cullano i bambini, altre sono sedute all’ombra degli alberi. I bambini intanto giocano e scorrazzano, come se nulla fosse. Il paesaggio ricorda molto quello dei villaggi rurali.

I reparti

Torniamo indietro, nel cuore dell’ospedale. Su un cortile si affacciano diversi reparti, fra cui la parte distaccata di terapia intensiva deputata alla cura delle ustioni e radiologia. Nel reparto ustionati ci sono otto letti, tutti occupati. Un signore è appena arrivato, ha la testa completamente bruciata, tanto che al color ebano della sua pelle si è sostituito un rosa chiaro. Un’infermiera ci spiega che ustionarsi in Uganda è molto comune. Sono soprattutto i bambini a scottarsi, perché giocano vicino a fuochi e fornelletti che rimangono accesi anche per molte ore.

Nel reparto di medicina generale lavora Simon, un giovane medico che ci mostra le diverse stanze. Il reparto è diviso in più zone, una ospita le donne, un’altra gli uomini e un’altra ancora i bambini. Le malattie sono diverse, dall’HIV alla malaria, ai problemi intestinali. Le famiglie dei pazienti li attendono all’ingresso. Di fianco a loro c’è un banco informativo dove sono appesi dei cartelli che spiegano come fare la separazione dei rifiuti medici e sensibilizzano sulla prevenzione. Di fronte a Medicina generale si trova il reparto di Pediatria. Il reparto è suddiviso in più blocchi, costituiti dalle varie stanze dove sono ricoverati bambini di età inferiore ai sei anni, con diverse patologie. Le più frequenti sono malaria, polmonite, ustioni, malnutrizione e malattie intestinali.

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La malaria, nonostante il miglioramento delle condizioni generali di salute nel Paese, rappresenta la prima causa di morte per i bambini di età inferiore ai cinque anni.

Soprattutto nella regione Acholi, in cui si trova Gulu, dove un bambino su dieci non raggiunge i sei anni. In questa zona la malaria colpisce il doppio della popolazione rispetto alle altre aree. Questo perché le campagne di disinfestazione messe in atto dal governo sono state interrotte: i farmaci per la prevenzione sono poco presenti e i loro costi molto elevati. Le donne incinte vengono tutelate con zanzariere trattate con insetticidi e sono sottoposte alla profilassi antimalarica.

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I picchi di malaria infieriscono soprattutto durante la stagione delle piogge e colpiscono soprattutto i bambini che, se non curati in tempo, muoiono nel giro di 48 ore. In questi periodi i letti del reparto di pediatria sono sempre occupati, e spesso una brandina ospita due piccoli pazienti. La richiesta di sangue durante la stagione delle piogge supera spesso la disponibilità di sacche presenti in ospedale, così viene richiesto ai familiari di donare il sangue. Anche gli studenti di medicina sono fra i più assidui donatori. Negli ultimi anni, infatti, è venuto a mancare il sostegno economico di Europa e Stati Uniti alla banca nazionale del sangue, e il governo fatica a sopperire alle mancanze.

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Per le visite in pediatria i medici si siedono all’ingresso di ogni stanza e le mamme si mettono in fila attorno a loro. Aspettano pazientemente il loro turno, mentre i medici fanno domande e controllano i miglioramenti dei piccoli pazienti. Vi è poi uno spazio dove le mamme aspettano che le infermiere distribuiscano loro le medicine. Mentre ci troviamo in questo reparto, una mamma ci spiega che il figlio più piccolo ha l’anemia falciforme: non ha ben capito di cosa si tratti, e ci chiede informazioni.

L’anemia falciforme è una malattia molto diffusa in Uganda. Si tratta di una malformazione genetica ereditaria dei globuli rossi che assumono la forma di falce. La donna ci chiede se il suo bambino guarirà, e noi le rispondiamo come avrebbe fatto un ugandese: “Se Dio vuole, andrà tutto bene.” Lei sorride, rassicurata. All’ingresso di pediatria c’è una stanza dove vengono fatte le vaccinazioni ai bambini — i loro pianti e le loro urla fanno da sottofondo a tutto il reparto. In fondo, invece, si trova il reparto di oncologia. Molti bambini sviluppano una forma particolare di tumore, quello di Burkitt, che si suppone sia collegato alla malaria.

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Nei corridoi dell’ospedale incontriamo Padre Gabriele, uno dei primi missionari comboniani a essere arrivato in Uganda. Ci racconta che ha passato la maggior parte degli anni della sua vita in Africa, fra Nord Uganda, Sud Sudan e Congo. Ha visto guerre, malnutrizione, la diffusione dell’AIDS, e ha imparato la lingua locale. Ora ha ottant’anni e sembra non voler lasciare la sua seconda casa. Un’altra figura religiosa che anima l’ospedale è il vero e proprio pilastro del Lacor: Fratel Elio. Si trova in Uganda da tantissimi anni e ha contribuito con le proprie mani alla costruzione dell’ospedale, così come a quella dell’orfanotrofio St. Jude, a cui dedica ancora anima e corpo. Inoltre, ha ottenuto la liberazione di un gruppo di infermiere rapite dai guerriglieri durante la guerra civile.

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Oltre a curare i bambini, il Lacor si occupa anche delle loro madri. I reparti di maternità e ostetricia sono molto frequentati: in media una donna ha sette figli e molte desiderano partorire al Lacor. Alcune, non avendo abbastanza soldi per pagare un boda, si incamminano verso il St. Mary’s Hospital, percorrendo chilometri di strada in terra rossa, anche durante il travaglio. Altre, invece, raggiungono il Lacor in bicicletta, e altre ancora vengono caricate su camion colmi di persone e merci di ogni genere. Purtroppo alcune arrivano troppo tardi: accanto alla mortalità infantile, anche la mortalità materna registra tassi ancora elevati.

Le donne in Uganda tendono a fare molti figli, perché questi rappresentano una tutela per il futuro. Infatti, quando i figli diventano adulti, devono occuparsi dei genitori che non hanno la pensione. Inoltre, anche da piccoli costituiscono forza lavoro e forniscono un contributo alla gestione della famiglia.

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Gli incidenti sono la prima causa dei ricoveri

Gianfranco Piantelli, amministratore del Lacor, ci spiega che moltissimi pazienti arrivano in pronto soccorso in seguito a incidenti stradali. Con le nuove strade asfaltate le moto sfrecciano veloci, rispetto alle piste in terra rossa, piene di buche, e per questo aumentano gli incidenti, a causa di frequenti scontri fra boda-boda e automobili. Lo stesso Gianfranco ci racconta di aver assistito a un incidente qualche giorno prima, in cui tre persone che viaggiavano su un boda hanno perso la vita.

Un signore sta aspettando la moglie, fuori dalle sale dove vengono fatte le radiografie. Hanno avuto un incidente in boda, e la moglie si è fratturata una gamba.

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“Nuove” malattie

Per quanto riguarda le altre malattie presenti, Gianfranco ci racconta che la speranza di vita è aumentata molto negli ultimi anni in Uganda. E con questa sono cresciuti i tassi di malattie che si manifestano con l’invecchiamento, come patologie croniche o cardiovascolari. Il Lacor si sta impegnando nella loro cura, adeguandosi ai cambiamenti. Anche i tumori sono in crescita, fra cui leucemie e linfomi, quelli alla cervice uterina legati al papilloma virus e quindi alle malattie sessualmente trasmissibili e tumori ai polmoni, a causa dell’aumento del numero di fumatori. I medici del Lacor si occupano dei tumori estirpabili per via chirurgica, e trattano leucemie e linfomi con chemioterapia, il cui cure-rate è del 75%, se presi in tempo. Per curare questi tumori vengono utilizzate medicine chemioterapiche da meno di 500 dollari a ciclo. Non è pensabile, infatti, spendere migliaia di euro per allungare di qualche mese la vita ai pazienti, in un Paese dove la spesa sanitaria pro-capite è di poche decine di euro.

Per alcune patologie oncologiche non curabili qui, alcuni pazienti vengono inviati alla capitale Kampala. Nei casi più disperati, invece, succede che molti malati decidano di fare ritorno al proprio villaggio, perché non possono permettersi il viaggio alla capitale, e muoiano a casa. Il Ministero della Sanità ha richiesto di potenziare le attività del Lacor e l’ospedale ha risposto introducendo corsi avanzati in diverse discipline, dall’ostetricia, all’assistente di sala operatoria. Sono, poi, offerti tirocini non soltanto agli studenti di Gulu, ma anche a universitari esterni.

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La pace in Uganda dura da meno di dieci anni, dopo trent’anni di guerra civile, in cui soprattutto la zona di Gulu è stata teatro degli scontri fra l’esercito governativo e l’LRA, guidato da Joseph Kony. La brutalità e la violenza della Lord Resistance Army ha dilaniato l’area Acholi, su cui sorge il Lacor, e se ne notano ancora le conseguenze. Le condizioni di vita, in generale, sono migliorate: i livelli di malnutrizione sono diminuiti e le aspettative di vita si sono alzate. Ma la disoccupazione ha ancora tassi molto elevati, e le condizioni economiche restano molto svantaggiate: il cambiamento climatico sta facendo sì che non si sia sicuri di avere il cibo in tavola, e le grandi organizzazioni umanitarie che operavano nel Paese si sono piano piano spostate a pochi chilometri da Gulu, in Sud Sudan, o verso il confine con il Congo. Sono necessarie diverse campagne di sensibilizzazione e prevenzione, affinché il miglioramento vada avanti. Ed è proprio di queste che il Lacor si sta occupando. L’Uganda si sta costruendo, piano piano.


Tutte le foto dell’autrice.

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