Primo maggio a Beirut, tra le bandiere rosse dei comunisti che si preparano al voto
Il prossimo 6 maggio, dopo nove anni, i libanesi tornano a votare e il Partito Comunista locale ha approfittato della data per mostrare la propria forza.
Siamo stati al corteo del Primo maggio nella capitale libanese, tra bandiere rosse, faccioni di Che Guevara e l’ombra delle prossime elezioni.
Come non approfittare della bella giornata del Primo maggio e partecipare al corteo? Ci troviamo a Beirut, capitale del Libano e questa non è una giornata dei lavoratori come le altre. Il prossimo 6 maggio, dopo ben nove anni, i libanesi tornano a votare e il Partito Comunista locale approfitta della data per mostrare la propria forza.
Non che sembri avere speranze di successo elettorale: il sistema confessionale vigente sembra favorire i partiti tradizionalisti, come ci racconta Anas, rifugiato palestinese incontrato al corteo, con la sua bandiera del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina.
La manifestazione è comunque ben più consistente di quanto ci aspettassimo: ci ritroviamo quindi circondati di bandiere rosse, faccioni di Lenin e, soprattutto, del Che. Non possiamo che sorprenderci del successo che il rivoluzionario argentino ha nell’iconografia e nell’immaginario della sinistra libanese.
Anas tiene a farci sapere il suo amore per l’Italia e soprattutto la sua fede juventina. Alla domanda se si considera comunista risponde di no, in quanto musulmano. In realtà molti dei presenti sembrano portare simboli religiosi, in un perfetto sincretismo. Esempio classico: donna col velo che dà la mano ad un bimbo con la bandana del Che. È comunque vero che il Partito Comunista si professa laico.
Anche se conosciamo già la risposta, chiediamo ad Anas se potrà votare la prossima settimana. Ci dice di no, come immaginavamo. I rifugiati palestinesi, anche se sono vivono in territorio libanese da decenni, spesso sono nati qui e qui hanno a loro volta avuto figli, non godono della cittadinanza. Anas, che vive a Shatila, ci spiega che in Siria avrebbe invece avuto il diritto di votare, tradendo una probabile simpatia per Assad. E ci racconta anche di come per un palestinese la vita in Libano sia tutt’altro che facile, dato che sono costretti ad accettare stipendi più bassi e hanno la via sbarrata ad alcuni mestieri. Anas per vivere fa il parrucchiere in uno dei quartieri della Beirut bene.
Per capire il sistema politico libanese bisogna partire dal presupposto di come tutto si basi sulla convivenza tra il pacifico e il forzato fra diverse confessioni ed etnie: cristiani (maroniti, ma non solo), sunniti, sciiti ma anche curdi, armeni, drusi. I seggi in parlamento, così come le cariche principali dello Stato, devono essere suddivise equamente su base confessionale. Perciò, il prossimo parlamento, comunque vadano le elezioni, avrà metà aula cristiana (maroniti, ortodossi, ecc.), metà musulmana (sunniti, sciiti, ma anche drusi). Riconoscere la cittadinanza ai palestinesi vorrebbe dire sconvolgere i rapporti numerici e di conseguenza aumentare il numero di sunniti presenti nelle istituzioni. Il conflitto settario, esasperatosi negli anni Settanta, fu una delle cause di quella guerra civile che ancora oggi caratterizza il Paese nell’immaginario comune.
Per questo motivo, i comunisti in Libano, pur se da sempre una componente attiva nel dibattito (e nelle lotte), sembrano degli alieni con la loro impostazione laica. Anche se in realtà altre forze stanno iniziando a fare pressione perché il sistema confessionale sia abolito, la legge elettorale dovrebbe garantire ai tradizionalisti di mantenere lo status quo. Ed è per questo che Anas ci spiega che il risultato “è già scritto.” Ad un certo punto passiamo sotto il faccione elettorale di Rafiq Al Hariri, padre dell’attuale primo ministro e caduto in un attentato — mai del tutto chiarito — nel 2005. Simbolo del Libano confessionale — il figlio è il famoso Hariri “rapito” per qualche tempo dai sauditi e “liberato” da Macron — sembra guardarci con accondiscendenza e senza tradire nessuna preoccupazione allo scorrere delle bandiere rosse.
Ad ogni modo, il corteo attraversa la città, con i suoi contrasti, le sue grandi contraddizioni. A fine manifestazione incontriamo anche alcuni dei volontari italiani di Melting Pot, appena sbarcati in Libano per realizzare reportage sui rifugiati siriani. Il tempo di fare due chiacchiere su come sia complesso questo Paese, difficile e affascinante allo stesso tempo, e il sole inizia a battere così forte da suggerirci di rientrare.
Con la collaborazione di Federica Pretto.
Tutte le foto di Simenza.
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