in copertina, foto CC Asaf antman
Anche in pieno XXIesimo secolo, gli ebrei ultra-ortodossi continuano ad avere un rapporto difficile con le donne. Un lato poco raccontato dell’“unica democrazia del Medio Oriente.”
Uno dei più grandi contrasti interni allo stato di Israele è quello esistente tra la maggioranza di israeliani laici, in tutto e per tutto simili ai cittadini di un qualsiasi paese occidentale, e la minoranza di ebrei ultra-ortodossi, che si distinguono dai loro concittadini nell’abbigliamento e nei comportamenti. Gli ebrei ultra-ortodossi sono detti anche haredim, parola che deriva da un termine ebraico che significa “colui che trema nel timore di Dio”; gli uomini haredim si vestono con candide camicie coperte da lunghi cappotti neri, cappelli dello stesso colore a tese larghe e dalla foggia antiquata, portano lunghe barbe e ancor più lunghi payot, riccioli di capelli che scendono sopra le orecchie. Gli ebrei haredim costituiscono circa il 12% dei quasi nove milioni di cittadini israeliani; il loro estremo tradizionalismo religioso non si manifesta solo in credenze personali ma anche – e più evidentemente – nel modo in cui si pongono rispetto all’ambiente circostante: radicalmente diversi, a partire dall’abbigliamento, e radicalmente fermi sulle loro posizioni che respingono la modernità e le sue corruzioni per restare fedeli all’insegnamento originario della Torah. L’ebraismo è la religione della Legge, un credo dove nel libro sacro sono elencati ben 613 precetti che oggi come ai tempi dei patriarchi chiedono di essere rispettati minuziosamente, senza spazio alcuno per aggiustamenti dettati dal buon senso. Tra queste massime c’è un classico delle religioni di tutti i tempi e luoghi: la separazione fisica delle donne dagli uomini ogni qual volta sia possibile, per evitare che questi ultimi cadano in impurità di pensiero e d’azione. Gli haredim rispettano questa norma con l’intransigenza tipica di chi obbedisce ad un comando divino.
Quest’anno in occasione della Pessach, la pasqua ebraica che vede molte persone viaggiare da e verso Israele, l’Israeli Religious Action Centre (IRAC), organizzazione legata ad ambienti che propongono un giudaismo moderato e riformato, aveva progettato di lanciare una campagna per informare le donne sull’illegalità di una pratica abbastanza comune: capita che, se un uomo ultra-ortodosso si trova su un volo aereo seduto accanto ad una donna, a quest’ultima venga chiesto da parte dell’equipaggio di cambiare posto, solitamente con il favore degli altri passeggeri che vogliono evitare ritardi nel volo. L’IRAC sostiene che la campagna fosse stata inizialmente approvata dalle autorità israeliane, ma che il permesso di affissione sia stato poi revocato senza particolari spiegazioni.
C’è un video informativo ancora disponibile sulla pagina facebook dell’associazione dove si ricorda la vicenda di Renee Rabinowitz: nel 2015, ad 81 anni suonati, Renee si trova su un volo della compagnia di bandiera israeliana El AL in partenza dagli Stati Uniti e diretto a Tel Aviv, quando viene gentilmente costretta a cambiare sedile perché un uomo ultra-ortodosso desidera a tutti i costi evitare qualsiasi contatto con lei. Con la collaborazione dell’IRAC, l’anziana signora decide in seguito di intentare una causa nei confronti della compagnia aerea, che viene accusata di averla forzata a cambiare posto e perciò di aver operato discriminatoriamente nei suoi confronti. Rabinowitz vince e così dall’anno scorso è formalmente vietato ai membri degli equipaggi aerei di avanzare pretese sessiste simili a quelle da lei subite. Ma l’iniziativa informativa dell’IRAC e la censura della stessa da parte delle autorità aeroportuali dimostrano che la questione è ancora lontana dall’essere risolta.
Tentativi di evitare il contatto con donne sconosciute attraverso pratiche sostanzialmente discriminatorie si sono verificati anche sui bus: dal 1997 al 2011 in Israele sono esistite decine di linee di mezzi cosiddetti mehadrin, dove veniva rigorosamente rispettata la separazione dei sessi e dove perciò le donne erano costrette a salire e scendere dalla porta posteriore del bus e a prendere posto esclusivamente nei posti in fondo. Una situazione alla Rosa Parks traslata in anni recenti. L’idea di creare bus kosher nasce nel 1973 a Williamsburg, enclave haredi di Brooklyn dove gli ultra-ortodossi residenti negli Stati Uniti hanno iniziato a praticare la divisione in base al genere sulla linea B110. In Israele si sono lanciati in questo business sia operatori privati che la compagnia di trasporto nazionale Egged, causando non poche polemiche soprattutto quando capitava che qualche incauta donna salisse su questi bus non avendone ben chiare le regole e causando perciò reazioni a dir poco stizzite dei passeggeri ultra-ortodossi. Tutto ciò è andato avanti fino al 2011, quando la Suprema Corte Israeliana ha accolto le istanze di varie donne e associazioni, come la già citata IRAC, dichiarando illegale la segregazione in base al genere su mezzi pubblici, aggiungendo che ai simboli indicanti la divisione tra i sessi andassero sostituiti avvisi che invitassero tutti a prendere posto dove più piace. Nonostante ciò, la consuetudine di tenere uomini e donne divisi è rimasta: salire su un bus carico di uomini haredim per una donna significa ancora oggi dover scegliere tra un atto di coraggio e un atto di buon senso, cioè tra sedersi in mezzo agli uomini ultra-ortodossi rischiando di essere redarguita o sottomettersi alle regole haredim – non più scritte ma ancora ben presenti nelle menti degli ebrei più tradizionalisti – stando perciò attenta a sedersi ben in fondo al bus.
Quest’esigenza esasperata di evitare ogni contatto non indispensabile con il mondo femminile a volte viene strumentailizzata da aziende private per accaparrarsi l’attenzione di quelli che sono potenziali clienti, per di più in costante crescita demografica. È quello che ha fatto Ikea, presente in Israele con tre punti vendita, che l’anno scorso si è dovuta scusare per aver pubblicato un grottesco catalogo speciale destinato specificamente alle comunità haredim: le immagini patinate mostravano interni abitati esclusivamente da uomini e bambini in abiti tradizionali, senza che alcuna donna facesse capolino, non da una porta, non da una fotografia incorniciata in un angolo. Ma questi bambini avran pure avuto delle madri! Nella sua volontà di compiacere ogni potenziale consumatore appoggiando anche le sue più esecrabili credenze, Ikea si è aggiunta involontariamente alla scia delle pubblicazioni prodotte e destinate ad un pubblico haredi, dove non c’è posto per nessuna immagine di donna: il settimanale americano per ultra-ortodossi Yated Ne’eman ha fatto scalpore tra gli haredim per aver pubblicato a corredo di un articolo sulle presidenziali statunitensi una foto di Hilary Clinton, o meglio una pudica foto del suo braccio, invece dei soliti disegni raffiguranti il marito.
Notizie simili potrebbero sembrare quasi folkloristiche, ma le esitanti rivendicazioni della parità di genere da parte dello stato israeliano sono indice delle difficoltà che esso incontra nel rapportarsi con la fetta più tradizionalista della sua società, nei riguardi della quale spesso indulge in un eccessivo permissivismo, che si probabilmente si spiega con la volontà di conservare gli ultimi incorruttibili custodi dell’identità ebraica. Infatti, se i più implacabili tra gli uomini haredim cercano di tenere le donne laiche fuori dalle bolle in cui vivono, sono però proprio le donne nate e cresciute in comunità ultra-ortodosse a ricevere il trattamento peggiore. Sebbene non ci sia niente di imposto nella maggioranza dei casi, non si può non sottolineare come le donne haredim vivano in totale subordinazione agli uomini della famiglia, come accade in tutte le società tradizionaliste che hanno mancato l’appuntamento con il XX secolo. Spesso non rivolgono una parola a chi non appartiene al loro gruppo familiare; quando si avventurano fuori dai loro quartieri – ghetto si portano appresso orde di bambini a piedi e nei passeggini, a rappresentazione plastica dell’esclusiva funzione loro affidata: essere fattrice. Sei e più figli a testa, frutto di matrimoni combinati in cui la povertà è la normalità, visto che gli uomini sono occupati nello studio della Torah e non hanno il tempo di lavorare.
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Le donne haredim studiano per pochi anni materie poco utili in scuole esclusivamente femminili; devono vestirsi secondo la tzniut, cioè secondo modestia: gonne lunghe e maniche che arrivano ai polsi anche nella torrida estate mediorientale, assenza di trucco, foulard a nascondere i capelli tentatori (che spesso sono anche rasati, per evitare che ne sfugga qualche ciocca da sotto le stoffe). Persino la preghiera è momento di divisione: lo spazio antistante il Muro del Pianto a Gerusalemme è percorso in tutta la sua lunghezza da un alto sbarramento; durante le cerimonie di Bar Mitzvah, la cerimonia con cui a 13 anni ogni adolescente di religione ebraica entra nell’età adulta, le parenti di sesso femminile del ragazzino festeggiato sono costrette ad aggrapparsi alla sommità di questa barriera per avere uno scorcio sulla cerimonia che sta avendo luogo dal lato opposto della barricata (quello maschile naturalmente). Ma se è molto frequente incontrare al Muro del Pianto schiere di parenti vestiti a festa per festeggiare un Bar Mitzvah, è raro invece incrociare le celebrazioni per un Bat Mitzvah, cioè per la versione femminile dello stesso rito. L’ebraismo rabbinico infatti proibisce alle donne la lettura della Torah in pubblico, gesto centrale nella celebrazione del passaggio all’età adulta. Ma “rifiutare alle donne l’accesso alla Torah non ha alcun fondamento nella Halakhah, cioè la legge ebraica, e non deve succedere in un luogo pubblico di uno stato democratico”: così hanno dichiarato le donne dell’associazione Women of the Wall, che nel 2014 sono finalmente riuscite ad aggirare questo divieto facendo passare una Torah in miniatura attraverso i metal detector posti all’ingresso dell’area di preghiera.
Grazie a loro la 12enne Sasha Lutt è stata la prima ragazzina a poter celebrare il proprio Bat Mitzvah nello stesso luogo e con gli stessi rituali fino ad allora riservati ai suoi coetanei maschi.
Questi e altri episodi sono comuni in tutte quelle religioni che non hanno saputo aggiornare sé stesse e che hanno dichiarato guerra alla modernità e alle sue conquiste. In questo senso, rigettare la parità di genere significa rimanere ancorati ad un tradizionalismo che, invece di proteggere l’uomo e la sua storia, è preoccupato solo di ripetersi in eterno.
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