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in copertina, foto via Twitter @Montecitorio

Dopo settimane di continue tensioni interne, per la prima volta si delinea un motivo vero perché il 3 maggio il Partito democratico decida di formare un governo con il Movimento 5 Stelle.

La mattina dopo le elezioni scrivevamo su questo sito come l‘Italia non fosse un paese di destra, e come il Movimento 5 Stelle avesse intercettato quei voti “di sinistra” che Renzi e la sinistra non erano riusciti a incassare.

Ma che cos’è un elettore di sinistra, e che cos’è un partito di sinistra? Il Movimento 5 Stelle, che rivendica di non avere nemmeno un’idea di stato, pronto ad accettare qualsiasi compromesso, perché sì, questa volta, “andiamo a governare.”

Senza idea di stato, grave solo in un modo diverso, è Matteo Renzi e i suoi seguaci, che dall’annuncio delle proprie dimissioni ha imposto un diktat contro un governo con i 5 Stelle che sta tenendo fermissimo pur dopo aver lasciato la guida del partito, nemmeno troppo nelle ombre.

Si tratta di una posizione infantile e vendicativa, di una persona che “vuole vedere il paese bruciare,” nella mani unte e inesperte di Salvini e Di Maio. Nello specifico, si tratta della posizione di uno sconfitto, Renzi, che arrivato in fondo a un vicolo cieco preferisce immaginare che il problema non sia stata la sua gestione, antipatica, centrista, inconcludente di quello che ricordiamo raccolse quando era il primo partito d’Italia. No: il problema è la politica, e nello specifico, della comunicazione politica, in questa lettura. Nella decisione di stare all’opposizione, una posizione biecamente reazionaria, Matteo Renzi dichiarava tra le righe la sconfitta della politica stessa, sostituendo la comunicazione per contenuti nell’unica cosa, gli sembra, funzioni ancora: la macchina del discredito.

È così che Lega e soprattutto 5 Stelle sono diventati le forze con cui avere a che fare, è vero. Ma così come Di Maio e il partito di Casaleggio si rifiutano di distinguere tra destra e sinistra, decidere di voler avere un ruolo in un governo di coalizione è implicitamente dargli ragione: tutti i partiti sono uguali, e servono prima se stessi che lo stato.

Ma separiamo Matteo Renzi dal Partito democratico. Si fa sempre piú fatica, è vero, ma proviamo.

Dopo queste settimane estremamente faticose di continue tensioni interne, per la prima volta, si delinea un motivo vero ed estremamente urgente perché il 3 maggio il Partito democratico decida di formare un governo con il Movimento 5 Stelle: celebrare definitivamente e senza possibilità di ritorno la propria separazione dalla figura tossica e perdente di Matteo Renzi.

Il Partito democratico per la prima volta in un mese e mezzo si trova in una situazione di certo guadagno: può andare a governare, diventando stampella indispensabile del Movimento 5 Stelle, ed essere finalmente libero da Renzi, che da troppo ormai — scegliete voi la sconfitta che sarebbe dovuta essere l’ultima — tiene il partito in ostaggio.

Perché essere la stampella del Movimento 5 Stelle sarebbe positivo? Prima il Partito democratico dovrà avviare un processo di vero rinnovamento, sul territorio e sul nazionale: rinnovamento vuol dire dialogo con realtà che finora si sono riconosciute esterne al Pd, vuol dire un nuovo programma, che sia di sinistra e fortemente alternativo all’attività del governo con i 5 stelle, e vuol dire persone nuove. Uno dei problemi piú grandi nella percezione pubblica del Pd è l’eterna revolving door di politici nazionali in testa a correntine e correnti che si spostano di qualche centimetro alla volta in base alla necessità.

Un nuovo Pd, che abbia un nuovo programma e dei volti nuovi che lo spieghino in televisione, potrebbe non solo servire la Repubblica fermando un governo guidato da una personalità dell’estrema destra, che troppo spesso ha manifestato la propria vicinanza a gruppi neofascisti. Partecipando a questo governo questo nuovo Pd “rinsavito” si troverebbe nelle condizioni in cui si è trovato il centrodestra alla fine del governo Monti, debole ma pronto per una nuova primavera, lanciata dalla certezza di poter essere lui, in qualsiasi momento, a decidere quando spegnere le luci su un governo che sarà inevitabilmente fortemente contestato.

Si tratta anche, non marginalmente, dell’unico modo rimasto al Pd di dimostrare che il Movimento 5 Stelle non è diverso, che si tratta di un partito qualsiasi come gli altri, anzi a fortissima impostazione padronale — così forte da essere già stato ereditato.

Perché se c’è un posto da cui vedere margini di crescita, una crescita che per questo partito democratico è certamente impossibile, l’espansione è tutta verso la base elettorale “di sinistra,” rieccola, che alle scorse elezioni ha votato 5 stelle, e certamente non gli elettori di Forza Italia, che, è inevitabile, verrano lentamente tutti convertiti in elettori della Lega di Salvini.

Il livello di tensione con cui si stanno gestendo gli incontri di queste settimane — che ha piú volte toccato toni francamente bambineschi, non possiamo fare un governo con loro perché ci abbiamo litigato — fanno sembrare lo scenario qui tracciato come qualcosa di eccezionale: si tratta invece di qualcosa di assolutamente normale, transizioni che succedono in tutti i paesi con modelli proporzionali e a partiti che devono affrontare un lineare scollamento della propria base elettorale. È qualcosa di assolutamente normale, e assolutamente fattibile. E l’alternativa? È sotto gli occhi di tutti: è il partito socialista francese.

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