Perché c’è bisogno di festival come il Roadburn
Un festival che esplora i territori della musica pe(n)sante, con lo sguardo fisso sul futuro, oltre che sull’hype del presente.
C’è sempre bisogno di un festival come il Roadburn. Rumore. Tanto rumore. Ma non solo questo.
Esplorare i territori della musica pe(n)sante, con lo sguardo fisso sul futuro, oltre che sull’hype del presente. E perché no? Qualche volta anche una strizzatina d’occhio al passato rivisitato o riunito. Uno degli inviti principali che pongono gli organizzatori del festival dell’underground che trabocca dal vaso degli ascolti di nicchia, della cult-music sperimentale, delle sonorità psichedeliche, occulte, estreme. Nato come Mecca dello stoner rock e dell’heavy psych, Roadburn si è aperto alle più ampie contaminazioni, dal black metal atmosferico al neo-folk, dall’elettronica intelligente al rock più violento e incontaminato. Insieme alla musica, le mostre d’arte, le listening sessions, le proiezioni di film indipendenti. La possibilità di gustarsi una Trappe, che viene brassata qualche kilometro più in là, un giro al coffee shop, un hamburger intitolato con i nomi delle band nei vari ristoranti della città.
La cornice è quella di Tilburg, ridente cittadina in Olanda, universitaria e tranquilla, dove si trova uno dei palazzetti più rinomati per la musica del vivo di tutta Europa, il Poppodium e intorno al quale si organizza un vero e proprio microcosmo artistico, di hipster neofiti e metallari old school, appassionati, collezionisti e artisti. Il nero tinge le strade durante il festival, e le magliette dei Converge e dei Neurosis fanno capolino in ogni dove. Il rock e l’heavy metal degli Iron Maiden e dei Metallica sembra lontano anni luce. Le preoccupazioni lavorative ed esistenziali lasciano spazio alle varie scelte di programma, diatribe sugli highlist e su come fare a vedersi più concerti possibili o come riuscire a portare a casa il maggior numero di vinili. E il popolo di cultori – chiamati col nome di Roadburners – mitiga le strade della cittadina con la loro esaltazione, la loro sete, di musica e di trappiste, mostrando come una passione per il nero e il demonio, intinta di cliché, porti ad una serena epifania che contamina tutto il territorio intorno al palazzetto, arrivando ai ristoranti, ai bar, e alle diverse venue che ospitano i vari concerti dell’evento. Parola dei tilburghesi questa e facilmente intuibile respirando l’aria del microcosmo Roadburn in quel week end specifico di aprile.
Non è infatti strano vedersi qualche gruppo del cosiddetto San Diego Takeover, che porta le band psichedeliche californiane nel territorio olandese, tutte insieme, che si uniscono agli skaters e ai rollatori di joint nello skate-park di fianco alla Hall Of Fame, o al nuovo allestimento del Koepelhal, che contiene il salone del merchandise dove far fuori le proprie finanze per gadget e vinili, oltre che le mostre d’arte in programma all’interno del Festival. O che jammano tra di loro.
Contaminazioni. Uniti alla West Coast ci sono infatti gli esponenti della psichedelia del Sol Levante, uniti al cantore Damo Suzuki e all’etichetta Guruguru Brain. Sono infatti molti gli esperimenti di jam che uniscono i Kikagagu Moyo, i Minami Deutch e altri nipponici agli Earthless di San Diego, artisti residenti all’edizione di quest’anno, con tre set all’interno della kermesse roadburniana.
E poi l’industrial di Broadrick dei Godflesh, che si declina anche nel progetto Zonal, con la performance del rapper-poeta Moor Mother, all’interno dei fumi dello 013. E il rumore mefistofelico dei Boris uniti a O’Malley dei Sunn O))), la musica commissionata direttamente dal Roadburn con il progetto Vànagandr di “Sol An Varma” (che unisce membri del black metal islandese in un tripudio di atmosfere serrate e nichiliste) e della Waste Of Space Orchestra (unendo i Dark Buddha Rising agli Oranssi Pazuzu in un viaggio dentro le weltashaung di diversi personaggi), per delle esperienze possibili solo all’interno della cornice specifica del festival. L’arte visuale e le luci contribuiscono a regalare emozioni e percorsi mistici, oltre che soluzioni stilistiche e performative di sicuro impatto e peculiarità.
E poi il Canada, coi Big Brave e i due set di due ore dei veri e propri miti Godspeed You! Black Emperor, che regalano ai presenti tra i momenti più intensi di tutta una vita. La musica folk tradizionale galiziana dei Sangre De Muerdago, intima e soffusa, poetica e tutta umana. E quella degli Hugsjà, introdotta dal fendere le acque della mitologia norrena dei drakkar vichinghi.
Ogni anno un certo filone di proposte viene organizzato da un vero e proprio curatore ospite, che presenta le realtà musicali che più ritiene significative. Quest’anno è toccato a Jacob Bannon dei Converge, presente con due set della sua band principale, con il side-project Wear Your Wounds e con l’esposizione Full Bleed, dove arte e musica si integrano alla perfezione. Miti che divengono persone vere, al tavolino delle mostre, dei banchetti del merch, sotto il palco a guardarsi gli altri concerti.
Un festival per appassionati. Sicuramente. Che colgono l’occasione di vedere performati dal vivo dei set unici, dove si esegue un album intero dall’inizio alla fine, come avviene per album come “Yodh” dei Mizmor e il superlativo brano di un’ora e mezza “Mirror Reaper” dei Bell Witch, o per i leggendari Crowbar, Weedeater, Cult Of Luna con Julie Christmas e infiniti altri. Impossibile vederli tutti. Qualcosa si perde e certo. Ma il guadagno musicale è sicuro. Forse anche quello di vere e proprie esperienze di vita. Dove l’erba, la birra e la presunzione non c’entrano affatto.
C’è bisogno di festival ed esperienze come queste. I Roadburners lo sanno. Altri forse ancora no.