Ma è davvero in corso un’escalation di bullismo?
Secondo una ricerca del 2008 la percentuale di docenti vittima di violenze oscilla tra il 3 e il 5%.
Dai titoli sensazionalistici agli editoriali di Michele Serra, il dibattito sul bullismo in Italia è completamente deragliato.
Nelle ultime settimane si è parlato molto di bullismo ed episodi di violenza nelle scuole, in tutte le declinazioni possibili: tra studenti, da parte di studenti a danno dei professori, da parte di genitori a danno dei professori, e perfino da parte di genitori a danno di altri studenti.
Il caso che ha creato più scalpore — come saprete se non avete vissuto in un eremo in mezzo alla foresta negli ultimi cinque giorni — è stato quello di un istituto tecnico commerciale di Lucca, dove alcuni studenti hanno ripetutamente minacciato e intimidito un professore di 64 anni, usando violenza verbale, mimando di colpirlo con un casco integrale da motociclista e impilando i cestini della spazzatura sulla cattedra.
L’episodio è andato ad aggiungersi a numerosi altri di segno simile a cui è stata data crescente attenzione da parte dei media negli ultimi mesi, come quello della professoressa ferita da uno studente con un coltello lo scorso febbraio in provincia di Caserta, o la professoressa disabile “legata e presa a calci” — a quanto pare né legata né presa a calci — ad Alessandria. La moltiplicazione delle segnalazioni di questo genere ha creato un clima da allarme sociale, al punto che l’associazione Professione Insegnante ha deciso di lanciare una petizione su change.org — con più di 61 mila adesioni al momento — indirizzata al presidente Mattarella e al Ministero dell’Istruzione, per chiedere “una legge contro la violenza sugli insegnanti,” mentre l’associazione Presidi Lazio sta organizzando un corso apposito per preparare i docenti a gestire casi di bullismo e un “flash mob musicale” sotto al Campidoglio per sensibilizzare sul tema.
Pronunciandosi sull’argomento, la ministra Fedeli si è espressa a favore della “linea dura”: “Di fronte ai fatti di Lucca e di Velletri [dove uno studente ha minacciato una professoressa di “farla sciogliere nell’acido,” ndr] i ragazzi vanno sospesi, il consiglio d’istituto deve valutare la gravità dei fatti […] e gli studenti devono essere sanzionati fino a non essere ammessi agli scrutini finali.”
È andata così per gli studenti di Lucca protagonisti dei video circolati su internet: in sei sono stati indagati e perquisiti per concorso nei reati di violenza privata, minacce e tentato furto del tablet con il registro elettronico (che cercano di strappare dalle mani dell’insegnante); per tre di loro il consiglio di istituto ha deciso la bocciatura, mentre due sono stati sospesi fino al 19 maggio, ma saranno ammessi agli scrutini.
Sicuramente una punizione “esemplare,” come il preside dell’istituto aveva preannunciato il giorno successivo all’esplosione dello scandalo. Ma viene da chiedersi quanto sia stata influenzata dalla pressione mediatica a cui la scuola è stata sottoposta.
La dinamica con cui si diffonde questo tipo di notizie segue un copione sempre uguale: la stampa locale — in questo caso La Nazione e Il Tirreno — rilancia morbosamente con titoli sensazionalistici i video delle violenze, senza mai specificare la fonte né la data esatta dell’avvenimento, seguita a ruota dalla stampa nazionale. In tutti gli articoli si dice genericamente che i video sono circolati su chat private di WhatsApp e poi pubblicati “in Rete,” che senza un link alla fonte non vuol dire niente. Al di là dell’opportunità di portare casi del genere alla ribalta nazionale, su cui si può essere d’accordo o meno, il sospetto è di essere di fronte a un caso di “viralità autoavverante”: la stampa pubblica un video dichiarandolo “virale,” e così lo rende effettivamente tale.
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Non si riesce a trovare traccia su internet del video incriminato prima del 17 aprile, data dello “scoop” della Nazione, che sul cartaceo ha dedicato al caso addirittura l’apertura in prima pagina. Da quel giorno, oltre alle infinite riprese su tutti i giornali, si trovano anche condivisioni “eccellenti,” come quella di Lucia Borgonzoni — senatrice della Lega, ex candidata al Comune di Bologna — che, tra un video razzista e l’altro, il 18 aprile ha rilanciato il video sulla propria pagina Facebook, senza oscurare i volti né dello studente (minorenne) né del professore, totalizzando 2,4 milioni di visualizzazioni e 31 mila condivisioni. È così che il video è diventato virale, non certo attraverso le chat di classe degli studenti lucchesi.
L’enormità montata sul caso ha colto alla sprovvista la stessa scuola, che non è chiaro se avesse già preso provvedimenti o no; a leggere tra le righe, sembra di sì: il preside ha detto di aver ricevuto i video “da soggetti esterni alla classe ma interni alla scuola” (quindi prima dell’uscita sui giornali) e di aver già parlato con le famiglie dei ragazzi coinvolti. Laura Sartini sulla Nazione il 18 aprile scrive che “nei giorni scorsi, quindi prima che uscisse il nostro servizio,” lo studente aveva cercato di chiedere scusa al professore, e la sua famiglia era già stata convocata. Dunque la scuola stava già prendendo internamente misure disciplinari per l’accaduto, quando il giornale ha deciso di gettarsi sul caso e di darlo in pasto all’opinione pubblica nazionale, cavalcando la psicosi bullismo e imponendo all’istituto una brusca accelerata, anche per questioni di immagine, che ha portato all’esito di cui sopra.
Si può pensare che agli studenti coinvolti siano servite da lezione la bocciatura immediata e una perquisizione di polizia finalizzata a sequestrare “il casco e gli indumenti indossati nei video” — un provvedimento utilissimo, ne siamo sicuri — e che d’ora in poi saranno alunni modello; oppure, al contrario, si può credere che faranno fatica a capacitarsi della reazione abnorme (mediatica, più che disciplinare) suscitata da un comportamento che per loro, evidentemente, era normalità.
Quello che è certo è che un ecosistema informativo basato su dinamiche tossiche di questo tipo non favorisce un serio dibattito pubblico su un fenomeno complesso e delicato.
Leonardo Tondelli sul Post ha parlato di “effetto bulldog”: come al tempo dell’allarme per le aggressioni dei bulldog a danno dei bambini, anche in questo caso i media hanno subodorato l’attrazione del pubblico per il fenomeno e, di conseguenza, hanno cominciato a insistere in maniera parossistica sulla stessa casistica. Il caso di Velletri — quello che ha suscitato la reazione della ministra Fedeli — è paradigmatico in questo senso: presentato ovunque come “nuovo caso di bullismo,” si trattava in realtà di un video vecchio più di un anno, ripescato per cavalcare l’onda mediatica dell’episodio di Lucca.
Nessuno degli innumerevoli articoli usciti in questi giorni per denunciare l’escalation di violenza nelle scuole (un esempio a caso) cita statistiche o serie storiche per suffragare questo dato: si tratta, quando va bene, di “impressioni” basate sull’accumulazione sparsa di segnalazioni più o meno recenti, senza nessun serio confronto con il passato per determinare il reale andamento del fenomeno.
Lo stesso vizio “impressionistico” riguarda il tanto discusso corsivo di Michele Serra, secondo cui il problema del bullismo sarebbe un problema di classe, meccanicamente traducibile in un divario tra istituti tecnici e professionali e licei:
Non è nei licei classici o scientifici, è negli istituti tecnici e nelle scuole professionali che la situazione è peggiore, e lo è per una ragione antica, per uno scandalo ancora intatto: il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza.
A chi l’ha accusato di classismo, Serra ha risposto — paragonandosi en passant a Marx ed Engels, per eccesso di modestia — rivendicando il proprio intento di denunciare una situazione di fatto: la struttura fortemente classista della scuola italiana, che porterebbe casi come quello di Lucca ad essere più frequenti nelle scuole superiori maggiormente frequentati dai figli di famiglie popolari e quindi, nella visione di Serra, naturalmente maleducate. Nel grande dibattito che ne è seguito, sia tra chi l’ha accusato di vivere nel mondo fatato della borghesia pseudo-intellettuale, sia tra chi l’ha difeso salvandone le intenzioni di sinistra, in pochi si sono soffermati a verificare il presupposto da cui è partito il suo ragionamento.
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È vero che gli episodi di bullismo sono più frequenti negli istituti tecnici e professionali? Secondo gli ultimi dati reperibili — Istat 2014 — no: gli studenti liceali che dichiaravano di aver subito ripetutamente comportamenti offensivi o violenti erano allora il 19,4%, contro il 18,1% degli istituti professionali e il 16% degli istituti tecnici. I fatti di bullismo risultano più frequenti al Nord che al Sud e nelle isole. Un dato che andrebbe incontro alla “teoria” di Serra — che in molti hanno difeso come dato di fatto, lapalissiano — è quello relativo alle “zone poco o per nulla disagiate,” in cui si registra la quota più elevata di ragazzi e adolescenti che non hanno subito atti di prevaricazione da parte dei coetanei, ma la differenza percentuale rispetto ai ragazzi che vivono in zone “molto disagiate” (49,7 contro 44,6) indica chiaramente che non si può considerare — approssimativamente — il ceto di provenienza come un fattore strutturale per l’insorgenza del bullismo. La distribuzione pressoché paritetica tra le diverse tipologie di istituto superiore va nella stessa direzione: il bullismo è un fenomeno che travalica le differenze di classe.
Sulla base di questi dati, i giornali titolavano “allarme bullismo” già nel 2016, ma non sono tanto diversi da quelli di una ricerca effettuata nel 2001 tra le scuole superiori della Provincia di Trento, in cui il 33% degli intervistati dichiarava di essere vittima ricorrente di bullismo. La prima a prendere in considerazione gli atti di violenza di studenti nei confronti degli insegnanti è una ricerca del 2008, in cui la percentuale di docenti vittima di violenze risulta oscillare tra il 3 e il 5%: ogni dichiarazione della presunta escalation negli ultimi anni deve necessariamente partire da questi dati, e dimostrare che siano andati peggiorando.
Questo non significa, ovviamente, negare l’esistenza del fenomeno o minimizzarlo, ma pretendere che una discussione seria parta da una base solida e non dal sentito dire o dal sensazionalismo giornalistico, vada ad affrontare le cause reali del problema — che sono inevitabilmente complesse e non riducibili a un solo fattore — e soprattutto coinvolga gli attori interessati (studenti, insegnanti, genitori), invece che ridursi a un opinionismo indistinguibile dalle chiacchiere da bar.
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