“Cosa fare nelle situazioni d’emergenza.” Dentro l’esercito lituano con Mattia Vacca
Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi.
Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.
Questa settimana Mattia Vacca ci presenta il suo progetto “How to act in extreme situations or instances of war,” una serie di immagini dall’addestramento dei soldati del nuovo esercito lituano, dopo il ripristino della leva militare nel 2015, con l’arruolamento di 3000 soldati dai 19 ai 27 anni, di cui 2600 volontari.
Il titolo del progetto è la traduzione in inglese del titolo della brochure che il governo lituano ha inviato a tutti i cittadini durante l’anno di reclutamento aggressivo.
Vacca è stato embedded per tutto il primo mese di addestramento delle reclute, partecipando al training nelle foreste, per seguirli poi fino al confine con l’enclave russa di Kaliningrad.
Ma prima, facciamo un passo indietro.
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Cosa ti ha spinto in Lituania e, prima ancora, cosa ti ha spinto ad avvicinarti alla fotografia documentaria?
Nel 2015 sono stato invitato ad esporre il mio lavoro precedente alla Biennale d’ Arte di Kaunas e mi è stato proposto anche di realizzare un secondo progetto in loco in esclusiva per la Biennale.
Sono un fotografo documentarista e mi interesso prevalentemente a temi sociali e alle conseguenze delle guerre quindi dedicarmi a questo tema particolare è stata una vera e propria necessità dato che il tema del reclutamento dei giovani militari in Lituania era di assoluta attualità proprio nei mesi precedenti all’allestimento della Biennale e l’annessione della Crimea alla Russia era avvenuta l’anno precedente.
Nasco fotogiornalista ma mi sono spostato sempre di più verso la fotografia documentaristica: è un approccio più lento ed intimo alle storie che scelgo di raccontare. Sono estremamente curioso e vivo intensamente le storie che fotografo. Non cerco la perfezione, per me una foto è buona solo se racconta una storia, se ti smuove qualcosa o se da quello che fotografi emerge chi sei.
Qual è il tuo progetto a cui sei più legato?
Sono profondamente legato ad ogni mio progetto e ovviamente è sempre il più recente ad essere prioritario, quindi in questo momento direi gli ultimi due progetti scattati in Caucaso; Georgia e Nagorno-Karabakh.
Devo però ammettere che sicuramente “A winter’s tale,” il mio long-term sull’arcaico carnevale alpino di Schignano, è il progetto al quale mi sono dedicato per più tempo (ormai quasi 10 anni) e, in realtà, nonostante lo potessi considerare concluso avendo realizzato un libro nel 2014, non sono ancora riuscito ad abbandonarlo completamente e ci sono tornato anche il mese scorso con un assegnato per Geo Magazine.
Tra i lavori che possiamo trovare sul tuo sito, molti dei quali hanno ricevuto diversi premi e riconoscimenti nel corso degli anni, possiamo trovarne qualcuno ancora in fieri che ti piacerebbe sviluppare ulteriormente in futuro con nuovi contenuti?
In Nagorno-Karabakh ho lavorato ancora sul tema delle giovanissime reclute dell’esercito che tra i 13 e i 18 anni diventano necessariamente militari in quanto nello stato non riconosciuto conteso tra Armenia ed Azerbaijan l’accademia militare sostituisce le scuole superiori.
Il tema degli eserciti in paesi non riconosciuti o con status particolari e delle giovanissime reclute costrette ad imbracciare un’arma e partire per il fronte mi interessa molto e vorrei portarlo avanti in altri paesi.
Sicuramente vorrei anche però tornare in Georgia per continuare la mia ultima storia sulla popolazione Doukhobors che sta rapidamente scomparendo.
Sono diversi anni ormai che lavori nell’ambito del fotogiornalismo, in Italia e all’estero: credi sia ancora un mestiere “sostenibile”?
È chiaramente un discorso lungo e complesso, in estrema sintesi e col rischio di generalizzare direi che per quanto riguarda l’Italia la situazione, esclusi pochi casi virtuosi, è abbastanza disperata. All’estero gli assignment sono ancora discretamente pagati e la nostra professione per fortuna è ancora rispettata. Ma per la maggior parte di noi oggi è utopico pensare di riuscire a vivere solo ed esclusivamente di fotografia documentaristica semplicemente perché la crisi dell’editoria ha ridotto incredibilmente il numero di assegnati e quindi viviamo prevalentemente di lavori commerciali che ci servono anche per finanziare i progetti personali.
Ormai siamo tutti freelance, o lo diventeremo: come ha inciso — se ha inciso, a tuo parere — questo nuovo sistema del “tutti-contro-tutti” sui rapporti interpersonali, su quelli che magari un tempo erano rapporti di fiducia, e amicizia, e stima reciproca, meno viziati da rivalità e competizione?
Per fortuna ho parecchi colleghi che considero buoni amici, ma siamo in troppi in un mercato ormai ridicolo e la competizione nel sistema “tutti-contro-tutti” c’è e non si può negare. Però ora ho un sostegno maggiore perché dopo tanti anni da freelance puro a gennaio mi sono unito all’agenzia Prospekt che è una “famiglia” di amici fotografi che stimo davvero.
Quali sono i tuoi programmi per il futuro?
Con la mia piccola casa editrice Delicious Editions ho appena realizzato il libro collettivo “Confine” e la distribuzione e le presentazioni stanno totalizzando questi mesi insieme ai lavori commerciali. Normalmente in questo periodo parto per almeno un reportage, ma ho deciso di posticipare i viaggi alla seconda metà del 2018. Le aree di interesse sono tante, sicuramente ancora il Caucaso, la Russia, ma vorrei anche tornare in Cina.