Chez Jesus, la chiesa occupata per i migranti a un passo dalla Francia
A fine marzo, un gruppo di attivisti ha occupato il sotterraneo della piccola chiesa parrocchiale di Claviere, in alta Val Susa, per assistere i migranti che cercano di raggiungere la Francia.
Da quando a Bardonecchia il passaggio è diventato più difficile a causa della neve, il transito è aumentato a Claviere, pochi chilometri più a sud, dove a fine marzo un gruppo di attivisti ha occupato il sotterraneo della piccola chiesa parrocchiale. Abbiamo parlato con Nicola, uno degli occupanti, per farci spiegare le ragioni e il significato di questa azione — politica, oltre che umanitaria.
Claviere è un comune turistico dell’alta Val Susa, adagiato sul confine italo-francese, a poco meno di 1800 metri sopra il livello del mare; conta circa 200 residenti, ma gli abitanti effettivi sono molti meno. A fine marzo, il suo nome è comparso tra le pagine della stampa nazionale per una “anomalia” nel corso della vita altrimenti sonnacchiosa di questa località alpina: un gruppo di attivisti ha occupato il sotterraneo della piccola chiesa parrocchiale, per ricavare, da quello spazio inutilizzato, un punto di appoggio e di accoglienza per le decine di migranti che quotidianamente cercano di svalicare in Francia.
Il punto di passaggio più noto sulla linea di quel confine è Bardonecchia, recentemente tornata al centro delle cronache per la brutalità della gendarmeria francese, prima con la morte di Beauty — la trentunenne nigeriana respinta al confine nonostante fosse incinta e gravemente malata — e poi con lo sconfinamento in Italia e l’intimidazione a danno degli operatori della Ong Rainbow 4 Africa.
Da quando a Bardonecchia il passaggio è diventato più difficile a causa della neve, il transito è aumentato da Claviere, che si trova 30 km più a sud, in corrispondenza di un valico — quello del Monginevro — decisamente più facile da attraversare. Di qui la necessità di un luogo di assistenza e di riparo, a cui gli attivisti hanno voluto dare un nome provocatorio: Chez Jesus.
Abbiamo parlato con Nicola, uno dei partecipanti all’occupazione, per farci spiegare le ragioni e il significato di questa azione — politica, oltre che umanitaria.
Ciao Nicola. Da quando avete occupato siete stati al centro di una certa attenzione mediatica, non sempre molto benevola.
Sì, c’è stata una pressione notevole, e mi è capitato di leggere vari articoli anche molto retorici. Alcuni giornalisti però sono rimasti delusi di essere arrivati fin lassù per niente: nessuno ha avuto la possibilità di raccogliere materiale audiovisivo all’interno dello spazio occupato — su questo siamo stati categorici.
Spiegami un po’ chi siete.
Chez Jesus è un collettivo “nascente” davvero trasversale: dentro c’è un nucleo di anarchici, c’è la rete Briser les Frontières, che esiste già da parecchi mesi in quella zona, e ci sono molti attivisti No Tav. È un collettivo nato in modo inconsapevole e non deliberato: non abbiamo creato un collettivo, ci siamo resi conto di averne creato uno. Non è facile tenere insieme tante realtà diverse, e capita che ci sia qualche conflitto interno, ma il bilancio è positivo: l’azione ha avvicinato molto di più le persone, rispetto alle idee.
A Briançon, dall’altra parte, esiste una casa occupata che accoglie le famiglie africane che riescono a passare il confine, che si chiama Chez Marcel, perché il padrone di casa era il signor Marcel. Noi ci chiamiamo Chez Jesus perché non siamo nessuno, ma abbiamo sfondato la porta di una chiesa. Con questo nome portiamo l’attenzione anche su quello che dovrebbe essere la carità cristiana, che non si è tanto vista.
In effetti ho letto che con il parroco non corre buon sangue.
Siamo stati completamente osteggiati da lui, non c’è stata possibilità di comunicare in alcun modo. L’unica cosa che abbiamo ottenuto è un distaccato invito a messa per i giorni di Pasqua, ma non accompagnato da altri comportamenti coerenti. Siamo percepiti come inquilini scomodi. Nessuno di noi però ha problemi a incrociarlo, se lo vediamo in cortile.
E con i residenti del paese invece che rapporto c’è?
Anche lì, zero comunicazione. Siamo visti come un corpo estraneo. Io ho cercato questo tipo di contatto — mentre ero su andavo spesso nei bar, ho cercato in tutti i modi di farmi riconoscere in quella comunità per dire “io sono uno di loro, se magari qualcuno vuole parlare con me può farlo.” Ma è stato del tutto fallimentare. L’unico dialogo che ho avuto, non di mia iniziativa, è stato con un albergatore di Claviere, giovane — sui 35 anni — molto arrabbiato con noi perché convinto che molte disdette ricevute fossero collegate al nostro atto di forza. Gli abbiamo fatto notare che la causa più prossima dell’allontanamento dei turisti sono i pregiudizi dei turisti stessi, e non quello che è successo nella chiesa.
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In compenso, c’è stata molta solidarietà dagli abitanti del resto della valle, e dai dirimpettai francesi. Quella zona non è mai stata storicamente di confine: l’alta Val Susa si è sempre sentita culturalmente più vicina alle valli francesi che alla pianura padana torinese. Il confine è sempre stato solo politico ed economico, ma con l’Unione europea e Schengen era venuto meno anche questo. Per questo il ripristino della frontiera, difesa con la forza dalla gendarmeria francese, ha fatto molta impressione a gran parte della popolazione locale.
Perciò, se violentiamo quel confine e decidiamo di parlare del territorio come un tutt’uno, vediamo che la solidarietà francese è antica. In Francia ci sono realtà molto radicate, meglio organizzate e comunicate, come la rete Tous migrants, di Briançon, in cui davvero c’è di tutto: dall’anarchico incazzato alla signorotta ingioiellata.
Tu facevi parte di un collettivo in particolare? Raccontami come hai deciso di unirti all’occupazione.
Io sono valtellinese, ma vivo a Milano. Non facevo parte di nessun collettivo e non avevo mai fatto né politica né attivismo: sono stato spinto a Claviere dalla curiosità e dal senso del dovere. Sono arrivato quattro giorni dopo che avevano sfondato la porta, con un amico che ha sempre gravitato attorno alla causa No Tav. Sono nato e cresciuto in montagna, ho fatto corsi di soccorso… Mi sembrava stupido non andare: avevo tutte le carte in regola per essere là, e là avevano bisogno di persone. Se arrivi con una cassa di vestiti e fai lì anche solo tre ore, ti accorgi di esserne già diventato parte. Io sono stato su 10 giorni e ora mi sto organizzando per tornare a maggio. Altri, che vengono da più vicino, salgono anche soltanto per un giorno o una notte, e tornano più spesso.
Com’è adesso la situazione?
Dal punto di vista della nostra organizzazione, sta gradualmente evolvendo: ogni giorno facciamo lavori sulla struttura, dal riscaldamento all’elettricità. Lo spazio basta per una trentina di persone, tra occupanti e ospiti. Quando entri arrivi nel salone principale, che ha un soffitto molto alto. Abbiamo costituito una zona notte sui lati con delle tende montate per la privacy, e la zona centrale è adibita a refettorio e ricreazione. C’è anche un calcetto, che abbiamo trovato lì.
Negli ultimi giorni c’è stato un certo sovraffollamento — l’altra notte so che c’erano circa 50 persone. Spesso quelli che partono la notte ritornano al mattino dopo da noi, respinti alla frontiera, e questo aggrava molto la gestibilità della situazione. A Claviere non ci sono altre strutture di accoglienza.
Il passaggio e la frontiera sono sempre in alta quota, ma rispetto a Bardonecchia qui camminano su una strada asfaltata (salvo farsi prendere dalla gendarmeria). Alcuni hanno ripreso anche a tentare il passaggio in pullman, ma per il 90% vengono fermati e tornano indietro.
Altre associazioni e Ong che assistono i migranti in quelle valli lo fanno entro una cornice legale, a volte anche con accordi specifici con le amministrazioni locali e le prefetture. Per esempio Rainbow 4 Africa ha un accordo con la prefettura di Torino, per cui se un migrante da loro torna nel centro di accoglienza da cui è scappato, viene ri-accolto senza penalizzazioni. La vostra scelta di rottura, anche rispetto al comune di Claviere — il sindaco ha detto che “non è così che si fa accoglienza” — non rischia invece di aggravare le tensioni?
Il sindaco non si è mai fatto vedere, e bisognerebbe vedere cosa intende lui per fare accoglienza. Rispetto a Rainbow 4 Africa — te lo dico a titolo personale ma anche a nome della stragrande maggioranza del collettivo — non condividiamo l’atteggiamento di voler far desistere queste persone. Alcuni ci accusano di strumentalizzare i migranti per la nostra lotta politica, ma non è così. Se per “accoglienza” si intende quella organizzata dallo stato italiano, allora noi lì non facciamo accoglienza, è proprio la parola sbagliata: siamo un punto d’appoggio per persone che dal sistema d’accoglienza fuggono a gambe levate.
Però far desistere le persone dal valicare la montagna è anche per proteggere la loro incolumità, e infondere realismo sulle possibilità effettive di riuscita.
Questo sì, e lo facciamo anche noi: se arrivi coi jeans e le sneakers ti facciamo capire che stai andando a farti male. Ma con una differenza: questo bagno di realismo lo facciamo raccogliendo equipaggiamento, spiegandoti il cammino che farai, mettendoti nelle condizioni di non farti male. Non diciamo ai rifugiati di tornare in un sistema di accoglienza in cui non hanno nessuna intenzione di tornare — e infatti sono in pochissimi a farlo, solo quelli che in Italia hanno qualcosa da fare. Chi torna per tornare in posti come il CARA di Mineo piuttosto rischia la vita. E questo ci deve far interrogare sulle condizioni dell’accoglienza italiana: quando incontri uno che è stato in un CARA un anno o un anno e mezzo, è disposto a morire pur di non fare quella vita lì, soprattutto se è nel fiore degli anni.
Qual è la percentuale di quelli che riescono a passare, più o meno?
Dipende dalle giornate. La settimana in cui sono stato su io, direi anche dell’80%. Poi abbiamo avuto due giorni di chiusura quasi totale: la gendarmeria ogni tanto controlla, ogni tanto no.
Come mai?
Ce lo stiamo chiedendo tutti. Ci sono dinamiche che evidentemente non conosco, ma è proprio il governo francese a dare disposizioni precise alla gendarmerie. Se volessero fermarli tutti avrebbero le risorse per farlo — quel passaggio è un imbuto, se metti un posto di blocco non passa nessuno. Invece il confine è ancora poroso, si riesce a passare abbastanza facilmente. È come una diga con i fori di scolo.
I migranti arrivano su con l’idea di andare in pullman o a piedi, noi gli diciamo: siete venuti in un posto pericoloso, ma la maggioranza di voi è passata. Questo non è, come ho sentito dire al sindaco di Bardonecchia, alimentare false speranze: è alimentare le poche vere speranze.
Voi cosa rischiate dal punto di vista legale?
Dopo un incontro tra prefetto e sindaco, la nostra occupazione è stata dichiarata “non autorizzata ma tollerata.” A parte questo, la legislazione francese ti accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina se ti coglie in flagranza. C’è stato il caso di Benoît, guida alpina di 60 anni di Briançon, che rischia fino a 5 anni per aver portato in ospedale una donna incinta nigeriana già in territorio francese. Ma è solo il caso più eclatante, ci sono tantissimi indagati. Io stesso penso ormai di far parte di un database in mano alla gendarmeria, perché siamo stati più volte fermati con la stessa macchina.
Dopo il caso di Bardonecchia si è parlato molto del comportamento della gendarmeria francese. Avete avuto qualche noia direttamente anche voi?
No, nessun agente francese si è mai fatto vedere a Chez Jesus. Noi singolarmente siamo stati più volte fermati e trattenuti in Francia, ci hanno fatto perdere molto tempo, ma nulla di più. Un mio amico è stato beccato in notte profonda in giro in macchina, che stava andando a vedere se c’era qualche disgraziato rimasto per strada, ed è incappato in una macchina della gendarmeria in borghese, che gli ha detto “faites attention” — ossia: noi sappiamo chi siete, sappiamo quello che fate, state attenti. Con la gendarmeria si è sempre giocato a carte scoperte.
Vi è capitato di avere a che fare con qualche passeur?
Io personalmente no, ma prima che nascesse l’occupazione comunque di lì si passava, per cui i passeur c’erano. Sono africani, e creano danno proprio perché funzionano, i ragazzi si fidano di loro e si fanno togliere un sacco di soldi per avere informazioni che noi gli diamo gratis. Prima facevano proprio il passaggio — in macchina o addirittura con dei pullmini, assumendosi il rischio — ora che c’è Chez Jesus li portano soprattutto da Torino all’alta Val di Susa. Il treno costa otto euro, loro se ne fanno pagare 200-250. Ma queste persone hanno già speso migliaia di euro per attraversare il Sahara e il Mediterraneo. Noi li informiamo e cerchiamo di fare in modo che informino anche gli altri. Da quando esiste l’occupazione comunque il fenomeno è diminuito, non so se nella sostanza o nell’apparenza.
Ti faccio un’ultima domanda personale. Quando vedi le storie di queste persone, il loro spaesamento rispetto a quello che si aspettavano di trovare in Italia e in Europa, e a quello a cui vanno incontro, non ti è mai venuto il dubbio che quello che fate possa non essere il meglio per loro?
Se una persona è scrupolosa i dubbi se li fa venire tutti, ma la risposta che mi sono sempre dato è no. Quando vedi una persona che scappa verso il burrone, puoi pensare che sia scemo o che stia scappando da qualcosa di ancora peggiore. Parlando con loro te ne rendi conto: arrivano impreparati e fanno questo passo alpino con vestiti da città, e tanti si chiedono perché siano disposti a rischiare la vita in questo modo, ma la risposta è perfino banale. Se vedi una persona fare così, è perché il mostro che ha di fronte è più piccolo del mostro da cui sta scappando.
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