Da Giotto a Lana Del Rey: a tu per tu con Maria Antonietta
“Cambio sempre e sono molte cose diverse fra loro, spesso anche molto contraddittorie.”
“Cambio sempre e sono molte cose diverse fra loro, spesso anche molto contraddittorie.”
Letizia Cesarini, in arte Maria Antonietta, è impegnata nel tour promozionale del suo nuovo album Deluderti, uscito per La Tempesta dischi il 30 marzo scorso. La incontro a Milano prima di una presentazione, per parlare con lei, tra un caffè e l’altro, dei tanti significati racchiusi nell’album. Passando dalla musica, alla storia dell’arte, alle letture femminili, ho provato a immergermi nel multiforme universo di Maria Antonietta. Devo dire un’esperienza molto piacevole.
Come va?
Molto bene, sono molto contenta, un po’ stanca però soddisfatta.
Sei stata per molto tempo “a riposo” e in questo periodo di pausa dalla musica ti sei laureata, hai fatto un percorso di arte terapia e hai tenuto letture su poetesse donne. Che effetto ti fa tornare sul palco e “sotto i riflettori”?
Sicuramente la scelta di ritagliarmi uno spazio al di fuori del meccanismo in cui sei necessariamente introiettato quando si fa musica nasceva proprio dalla necessità di un’altra prospettiva, in cui dedicarmi ad altri interessi e cose che amo. È sempre molto importante mantenere il fuoco su quello che stai facendo, sul perché lo fai. Questo tempo è servito anche per testare la mia volontà di fare musica, per rinnovare la voglia di mettermi in discussione e dentro a un meccanismo fatto di concerti, presentazioni, tour e anche di visibilità. Quest’ultima cosa può sembrare molto divertente, ma in realtà — sarà che sono molto timida — è una dimensione di cui farei anche molto volentieri a meno (ride).
Cosa c’è di nuovo in questo tuo album?
C’è sicuramente molta più consapevolezza, che ho maturato grazie a questo distacco. I distacchi sono sempre molto vitali e utili nel metterti alla prova. C’è poi un respiro più ampio, nel senso che quello che scrivo mi riguarda sempre molto da vicino e quindi raramente faccio della fiction. Per lo meno parto da qualcosa che mi riguarda molto privatamente. Però questo ha il rischio di portarti a fare musica autoreferenziale, cosa che non mi piace perché, per quanto sia comunque egoica nel fare questa attività (ride), diciamo che non è il mio motore principale.
La sfida questa volta è stata parlare di cose che mi riguardassero, ma cercando di ampliare la prospettiva. Sicuramente mi ha molto aiutato la poesia che ho letto in questi anni e spero di essere riuscita a seguire la tensione di utilizzare una lingua che fosse più alta: penso che l’obiettivo sia dare uno sguardo più ampio sulla realtà, in cui più persone si possano rispecchiare.
Citavi appunto le poetesse: negli ultimi anni la questione femminile è venuta ad emergere un po’ di più, seppur per questioni spiacevoli. Come ti sembra la situazione in questo momento, sia dal tuo punto di vista di musicista donna, sia più in generale?
Penso che sicuramente sia in atto un percorso di consapevolezza, da parte sia degli uomini, sia delle donne, ma un percorso del genere è sempre traumatico, non è mai lineare. Questo invece che intimidirci dovrebbe spronarci ad assumerci tutti, prescindere dal sesso, una certa responsabilità. Spesso in questo discorso ci si focalizza molto sulla parte maschile — e giustamente — però penso che sia molto importante che anche alle ragazze, fin da piccole, venga trasmessa una consapevolezza di sé diversa, e che sia insegnato loro a sviluppare fiducia in se stesse e il pensiero di meritarsi di essere felici, di potersi realizzare e di non vivere la realizzazione di sé quasi come una colpa.
Io per prima mi sono spesso preclusa alcune cose, non perché altri me lo impedissero, ma perché mi auto-censuravo, magari anche inconsciamente. Poi, certo, conquistare la fiducia in sé stessi è difficile a prescindere, però non solo aiuta a raggiungere i propri obiettivi, ma trasmette anche un modello di positività all’esterno. Se non hai stima di te è difficile, purtroppo, che anche gli altri la abbiano.
Ascoltando il tuo album ho avuto l’impressione che avessi molta voglia di sfogarti. Per cui al diavolo le ipocrisie, le “cattedrali” possono bruciare e in generale tutto il grande anfiteatro di falsità che ci circonda. A questo fa da contraltare un mood molto piacevole, soft, in alcuni punti anche pop. Hai cercato di indorare la pillola?
In realtà penso che arrivare a questo sound sia stato un po’ inevitabile, perché i miei ascolti nel tempo sono molto cambiati. Se quando ho iniziato a fare musica i miei modelli di riferimento erano i gruppi punk femminili dei primi anni ’90 e del movimento riot grrrl — Bikini Kill, Babes in Toyland — col passare degli anni i miei gusti sono cambiati. Diffido sempre da chi, trovata una formula, la continua ad applicare per inerzia. Io cambio sempre e sono molte cose diverse fra loro, spesso anche molto contraddittorie (ride). Ascolto molto reggae, black music, soul, tante cose dei girl group degli anni ’50 e ’60 — in questo momento sono nella fase delle Shirelles, gli Shagri Las. Quindi è stata un’evoluzione naturale. Mi piace molto, poi, che ci sia il contrasto fra la spigolosità dei testi e la freschezza e la luminosità della forma musica. Perché effettivamente è un po’ quello che è la mia vita ora: vivo in campagna, nella luce, fra le piante, gli animali e con l’uomo che amo — con il sole in faccia diciamo! Però ciò non toglie che anche nella felicità i pensieri non siano sempre idilliaci o positivi. Questo connubio di un sound più morbido e un testo tagliente mi sembrava un mix che mi rendesse giustizia.
Mi è piaciuto molto il video di “Pesci,” che mi sembra giocare sul tema del doppio, del riflesso, dello specchio.
Il punto di partenza è quello dello specchio rotto, che porta con sé l’idea della frammentazione dell’identità: tu sei uno, ma sei sempre un altro. E questa complessità spesso è anche dolorosa, perché spesso la rottura di sé ferisce se stessi ma anche gli altri. Ma sono una fan della complessità, per cui mi piaceva che questi diversi livelli simbolici si sovrapponessero. Nel video sono molto statica perché volevamo comunicare il senso di solitudine che si prova quando si vedono gli altri che sembrano sempre molto impegnati, realizzati, di successo; la vera vita sembra sempre stare altrove, mentre a te sembra di essere sempre al punto di partenza.
Io ci ho letto una sorta di odio verso tutto ciò che è esposizione di sé, quindi il social network in primis.
Sì, certo, esemplifica benissimo quel meccanismo, la ricerca dell’approvazione degli altri per cui sembra quasi che se quello che dici e fai non è approvato dagli “altri” non esiste. Questa dinamica ti porta, da spettatrice, a vedere le vite perfette degli altri, fatte di momenti belli; nessuno di noi è così scemo da pensare che esistano vite perfette, ma questo input comunica quello, e se tu non sei saldo può metterti in dubbio. Che magari è anche positivo, eh! (ride) Però a piccole dosi.
In “Cara” a un certo punto dici quando finirete di esistere / niente mi confonderà e — a quanto ho inteso — ti riferisci al fatto che in certi momenti la società e la specie umana riescano a essere talmente giudicanti, ipocrite e oppressive che non si può che auspicarne, ragionevolmente, la fine. Ma a te non sembra che la società si stia già un po’ autodistruggendo?
Diciamo che effettivamente non è chiaro dove si stia dirigendo la società umana. Sarebbe bello se tendesse verso la condivisione, che in teoria dovrebbe farci sentire tutti più uniti.. Invece poi spesso accade che di fatto si resti isolati e quando ti ritrovi nel tuo mondo egoriferito alla fine non fai il bene né tuo né degli altri. In quel brano c’è sicuramente una visione un po’ apocalittica di un sogno — un’utopia — in cui almeno per un attimo pensi che questa società tanto giudicante possa evaporare. Ovviamente non me lo auguro, ho molta fiducia nelle persone. Però ogni tanto lo penso (ride). Anche se poi basta davvero un piccolo gesto — lo sguardo della persona che ti ama — e tutto quanto passa.
Da appassionata di storia dell’arte ti chiedo: qual è l’opera d’arte che ancora non sei riuscita a vedere dal vivo ma che desideri molto, e quale opera ti ha dato la sindrome di Stendhal?
Non sono ancora riuscita a vedere la Cappella degli Scrovegni di Giotto, ho cercato più volte di incastrare una visita ma non ce l’ho mai fatta! È una mancanza che spero di recuperare presto. Invece un luogo che mi ha conquistato è a Subiaco, dove c’è il monastero del Sacro Speco, un luogo veramente incredibile, dove San Benedetto si ritirò nel VI secolo a fare l’eremita, inizialmente in una grotta. Nei secoli successivi hanno costruito attorno a questo nucleo un monastero e un complesso di edifici, un’architettura a strapiombo sulla valle sottostante dell’Aniene. È un luogo incredibile, con un’energia spirituale fortissima. Poi sull’Aniene si può fare rafting!
Me lo segno per la prossima gita. A proposito di rafting, sei un tipo sportivo?
In realtà no! Però sono appassionata di luoghi dove si può fare trekking, camminare, stare a contatto con la natura. Ci sono stata a gennaio e non sono riuscita a fare molti giri nella natura, per cui medito di ritornarci quest’estate.
Come è nata la passione per la Storia dell’Arte? Disegni?
No, non disegno, ma mio padre dipinge icone sacre medievali, ha studiato da autodidatta per riuscire a diventare un miniaturista, quindi sono cresciuta fra i pigmenti, le lacche, le ingessature e tutti i materiali della bottega medievale. E mi portava in giro per abbazie, monasteri, da cui appunto la passione per l’arte medievale.
Un’altra tua grande passione è la lettura, che ti ha accompagnata in questi anni lontana dal palco e dal “mainstream.” In “Abitudini” canti: quanto vi affezionate facilmente alle abitudini / io non ne ho, sarà per questo che ho pochi amici / ma molti libri e molta presunzione. Secondo te, serve astrarsi dalle convenzioni e “rifugiarsi” nei libri? C’è bisogno che la gente si avvicini di più al mondo della lettura?
In realtà non è molto salutare rifugiarsi nei libri — anche se io sono maga in questo. La lettura a me ha dato tantissimo, praticamente tutto quello che sono. Per cui non potrò che ringraziare l’inventore della stampa — grazie Gutenberg! Però mi sono resa conto spesso di quanto questo a volte sia un mio limite e di quanto dovremmo dare fiducia anche alle persone invece che ai libri, che sono più facilmente controllabili — a differenza delle persone. Penso che ci si debba aprire alla sopresa: è anche per questo che ho costruito dei reading dedicati alla poesia e agli autori che amo, per farli uscire dalla mia dimensione privata e usarli come ponte di comunicazione con le persone.
Quale consiglio di lettura daresti ai nostri lettori?
Il Diario di Etty Hillesum, lo considero un consiglio eterno di lettura. È stato scritto da una ebrea olandese, poi deportata in un campo di sterminio, che fa una lettura di quegli anni da un punto di vista mistico. Leggerlo è come compiere con lei il suo percorso spirituale. È molto forte e potente, apre una prospettiva diversa, anche difficile da accettare.
Ultima domanda, cosa stai ascoltando in questo momento?
L’ultimo disco di Lana Del Rey! Sono sua grande fan.
Quello con la canzone per cui i Radiohead le hanno fatto causa?
Esatto! Brava! Quella canzone ha un testo molto bello. Lei infila dentro ogni tanto certe staffilate che passano alla leggera, ma in realtà ha dei picchi di lirismo molto interessanti.
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