La vittoria di IKEA dimostra la debolezza dei lavoratori dipendenti in Italia
Il risultato è una debolezza cronica dei lavoratori davanti agli interessi delle grandi o grandissime aziende da cui dipendono.
È finita male: il tribunale di Milano ha sancito che il licenziamento di Marica Ricutti, 39enne ex dipendente della filiale IKEA di Corsico, è legittimo.
Della vicenda ci eravamo occupati subito dopo i fatti, accaduti alla fine dello scorso novembre. Ricutti, separata, aveva chiesto orari di lavoro più flessibili per riuscire a conciliare il lavoro con le cure al figlio disabile. Repubblica, in un articolo del 28 novembre, aveva riportato il suo racconto:
“Mi sono sempre adattata a tutte le richieste e ho detto di sì anche all’ultima, quella in cui mi hanno chiesto di cambiare reparto. Ho detto sì, ma ho chiesto che mi si venisse incontro per gli orari: io ho due bambini e il più piccolo è disabile, motivo per cui ho la 104. All’inizio mi hanno detto di sì e che non ci sarebbero stati problemi, poi le cose sono cambiate.”
I nuovi orari di IKEA sono redatti da un algoritmo che, a quanto pare, non terrebbe in gran conto le esigenze dei dipendenti. Ricutti racconta anche che l’azienda avrebbe cominciato, sostanzialmente, ad ignorare lei e le sue proteste. “Allora ho cominciato a fare gli orari che facevo nel vecchio posto.” Nella lettera inviata a Ricutti per licenziarla, IKEA fa notare che la sua ex dipendente sarebbe arrivata una volta due ore in anticipo, l’altra volta due ore in ritardo — oltre ad osservare che “nel 2017 non è possibile che le tabelle orarie vengano redatte a mano.”
“Al di là della questione specifica, più in generale quello che è successo dà un ulteriore segnale di dove stia andando il mercato del lavoro, i diritti, e più in generale nel settore del commercio,” ci spiega Fulvio Lipari, che si occupa di questa tematica per USB, Unione Sindacati di Base.
I lavoratori nel settore commerciale e dei servizi — dipendenti e commessi di multinazionali come IKEA, fattorini di Foodora, o impiegati nei famigerati magazzini di Amazon — sono tra le categorie più sfruttate e, dunque, quelle tra cui si registra un maggior fermento sindacale. Uno degli episodi più clamorosi è accaduto nelle festività natalizie dell’anno scorso, quando — con diverse sfumature — alcuni centri commerciali del milanese avevano ventilato l’idea di tenere aperto anche durante il giorno di Natale o di Santo Stefano.
Si era creato un piccolo caso, che si era inserito nel clamore mediatico per la vicenda Ricutti. Il difficile, però, sembra proprio unire tutti questi focolai di protesta in un’azione unitaria ed efficace. Secondo un documento della CISL di Verona, “il settore dei servizi è esposto a logiche di mercato incontrollate e al criterio rimasto, […] attanagliato dal dumping contrattuale generato da associazioni e sindacati non rappresentativi.” Il dumping contrattuale è il fenomeno per cui alcuni dipendenti vengono assunti con contratti diversi da quelli previsti per le mansioni che poi vengono effettivamente incaricati di svolgere.
Il risultato, come si è visto, è una debolezza cronica dei lavoratori davanti agli interessi delle grandi o grandissime aziende da cui dipendono.
“Di sicuro stiamo assistendo a un cambio di sensibilità.” commenta Lipari. “Storicamente, almeno dall’introduzione della legge 300 dello statuto dei lavoratori del 1970 in poi i giudici hanno sempre considerato il lavoratore come parte debole, non l’hanno mai messo sullo stesso piano rispetto al datore, pur sempre utilizzando le normative vigenti.”
Secondo Lipari, “È particolare il fatto che un tribunale come quello di Milano, sempre stato attento alle istanze dei lavoratori diversamente ad esempio da quello di Monza, che è sempre stato un po’ più duro con i lavoratori su cause come questa. C’è un cambio di sensibilità che non arriva da solo, ma si inserisce in un percorso più generale di slittamento nella legislazione sul lavoro. Anche i rapporti con la legge sono rapporti di forza. Il ricco industriale evade miliardi all’anno, ma lo stato una soluzione la trova in fretta, con i patteggiamenti: se ce ne date una percentuale vi abboniamo tutto. Se invece non paghi il canone arriva Equitalia dopo una settimana. Queste dinamiche emergono non solo sulla legge in senso stretto — come nella formulazione e nell’approvazione del Jobs Act — ma anche nei rapporti con le istituzioni.”
Secondo la giudice del tribunale di Milano Silvia Ravazzoni il comportamento di Ricutti costituisce una “insubordinazione e grave violazione dell’obbligo di attenersi alle direttive del datore di lavoro,” perché la dipendente era diventata inaffidabile, a prescindere dalla correttezza o meno della sentenza.
Nel corso degli ultimi anni, il Jobs Act è stato il provvedimento che più di tutti ha contribuito a erodere la stabilità e il potere contrattuale dei lavoratori, in primis con l’abolizione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
“Spesso le aziende portano in giudizio anche quando sanno che perderanno, se hanno disponibilità economica, perché i tempi del giudizio sono lunghi, un anno e mezzo due anni. E per uno che magari ha una certa età e non riesce bene a ricollocarsi,” secondo Lipari. È prevedibile che la signora Ricutti ora ricorrerà in appello, ma questo significa altro tempo.
Intanto per IKEA, a Milano, resta aperto un altro capitolo: quello del licenziamento e del reintegro di due lavoratori, licenziati in seguito ad alcune proteste nel 2016, la cui storia può essere letta qui. Uno dei due è stato reintegrato; l’altro non ancora, “ma ci sono ottime probabilità che lo sia,” secondo Lipari. Per quanto riguarda IKEA a livello mondiale, invece, restano sempre in discussione le ombre relative ai sospetti di evasione fiscale sollevati a metà dicembre dall’Ue.
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