Possiamo parlare seriamente di reddito di cittadinanza?

In Italia ancora non si è sviluppato un dibattito serio sulla possibilità di un reddito svincolato dal lavoro — siamo troppo impegnati a ridere del Movimento 5 Stelle.

Possiamo parlare seriamente di reddito di cittadinanza?

In Italia ancora non si è sviluppato un dibattito serio sulla possibilità di un reddito svincolato dal lavoro — in parte perché siamo troppo impegnati a ridere del Movimento 5 Stelle.

Il filone comico che si è sviluppato sul reddito di cittadinanza subito dopo le elezioni del 4 marzo — con pagine come Aggiornamenti quotidiani sul reddito di cittadinanza, che ha raggiunto decine di migliaia di like in poche ore e sembra che faccia ancora ridere parecchie persone — ha dimostrato almeno due cose: da un lato la reazione un po’ triste, scomposta e risentita — anche sotto il velo dell’ironia — di una parte degli elettori di centrosinistra, che al posto della proverbiale analisi della sconfitta hanno preferito deridere la supposta ignoranza o dabbenaggine degli elettori del Movimento 5 Stelle, che avrebbero espresso il proprio voto allettati soltanto dalla prospettiva di soldi facili in cambio di nulla.

Il momento più basso si è toccato con la storia — ampiamente gonfiata — dei Caf di Giovinazzo, in provincia di Bari, “presi d’assalto” da cittadini che chiedevano i moduli per il reddito di cittadinanza, su cui si è puntellata una narrazione post-elettorale basata sul pregiudizio del Sud scansafatiche, improduttivo e prono all’assistenzialismo. Una narrazione che, oltre ad essere semplicistica e inadatta a spiegare il successo del M5S, come ha scritto Claudia Torrisi su Valigia Blu, “esprime una sorta di malcelato dileggio dei poveri.” (Neanche troppo malcelato.)

Il secondo elemento che se ne ricava, strettamente correlato al primo, è che l’opinione pubblica italiana evidentemente non è ancora pronta ad affrontare una discussione seria sulle possibilità di attuazione di una misura come il reddito di cittadinanza — o meglio, reddito di base.

Quest’ultimo in realtà gode di una lunga tradizione di studi e proposte: dall’Utopia di Moro alla variante liberista di Milton Friedman, l’idea di una remunerazione svincolata dalla prestazione lavorativa riaffiora periodicamente nel pensiero economico e nel dibattito pubblico. Di recente, si è parlato molto di alcuni progetti pilota in corso in Finlandia e altrove, non solo per iniziativa pubblica, ma anche di privati, come nel caso dell’esperimento condotto dall’acceleratore di startup della Silicon Valley Y Combinator. A giugno 2016, un piano per l’introduzione di un UBI (Universal Basic Income) è stato sottoposto a referendum in Svizzera, e nonostante l’esito negativo del voto la campagna ha dato nuova vitalità al movimento internazionale che si riconosce variamente nel network BIEN. Il regista austriaco Christian Tod, l’anno scorso, ha girato un documentario sull’argomento, che si intitola significativamente Free Lunch Society.

“Il Movimento 5 Stelle ha avuto il merito di sdoganare questo termine,” sostiene Andrea Fumagalli, professore associato all’Università di Pavia e fondatore del BIN, la rete italiana afferente al BIEN, “ma ha usato un termine improprio. Quando in Italia si iniziava a discutere di questi temi, io stesso, nel ’97, ho scritto un piccolo pamphlet che si intitolava Dieci tesi sul reddito di cittadinanza. È stato un errore lessicale. Oggi il termine cittadinanza implica una serie di questioni giuridiche e normative sulla definizione dello status di cittadino, per cui sarebbe meglio non usarlo.”

Come è stato sottolineato da più parti, soprattutto dopo le elezioni, la proposta della formazione di Di Maio non prevede un reddito da erogare ai cittadini in quanto tali — come suggerirebbe il nome — ma si presenta piuttosto come un sussidio di disoccupazione, che impegna il beneficiario a una serie di comportamenti finalizzati al reinserimento nel mondo del lavoro (iscrizione ai centri per l’impiego, accettare uno dei primi tre lavori proposti, partecipare a progetti “utili per la collettività” e a corsi di riqualificazione e formazione). Manca, cioè, di due requisiti fondamentali delle varie proposte di basic income: l’universalità — dunque l’estensione della platea dei beneficiari a prescindere da status e reddito — e soprattutto l’incondizionalità.

“Sull’universalità si può discutere,” prosegue il professor Fumagalli, “dal momento che un reddito di base veramente universale comporterebbe una quantità di risorse difficilmente reperibile. Ma quello dell’incondizionalità è un principio fondamentale: il reddito di base non svolge un ruolo di assistenza, come normalmente viene inteso, ma di remunerazione. Non devono esserci contropartite morali o di comportamento. Il nostro tempo di vita è tutto produttivo, anche quello che non ci viene remunerato: il reddito di base dovrebbe remunerare quel tempo di attività produttiva che al momento attuale non viene considerata attività produttiva reale — dall’attività di consumo a quella sociale, dalla gestione di ozio o pseudo-ozio, al gioco.”

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D’altra parte, capire esattamente cosa passa per la testa del Movimento 5 Stelle non è mai semplice. Il 14 marzo, Beppe Grillo ha pubblicato sul proprio blog — quello nuovo — un post intitolato “Società senza lavoro,” in cui, prendendo atto dell’avvento di un’era caratterizzata da un bisogno sempre decrescente di lavoro, si è avvicinato alla formulazione di un reddito di base universale in senso proprio, svincolato dalla “produzione di qualcosa,” ma battezzandolo con un termine ancora nuovo: reddito di nascita.

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Di fronte a questa ambiguità, il Pd si è trovato impreparato: ha relegato la proposta nel reame dell’irrealizzabile — con paragoni di alto livello politico — intendendola proprio per ciò che non era (“pagare la gente per stare a casa a far nulla”), e contribuendo quindi ad alimentare la stessa confusione che avrebbe mosso i fantomatici elettori in coda ai Caf; allo stesso tempo, ha incomprensibilmente sottolineato più le differenze che le somiglianze con il REI, il reddito di inclusione, una forma di sostegno al reddito in vigore dal primo gennaio, pubblicizzata pochissimo, diversa dalla proposta del Movimento 5 Stelle sostanzialmente solo per l’entità del finanziamento previsto e la durata.

Il fatto che il centrosinistra non sia stato in grado di mettere sul tavolo una proposta più seria e più radicale invece che appellarsi alla ragion pratica e presentarsi come il partito che non fa “promesse sgangherate,” la dice lunga su quanto le attuali condizioni economiche siano state introiettate e trasformate in dati di natura e non frutto di precisi intendimenti politici: è il realismo capitalista di cui parlava Mark Fisher, quell’impossibilità anche soltanto di concepire un’alternativa allo status quo.

Pagare la gente per stare a casa a far nulla: perché no?

L’aver abbandonato ogni traccia di pensiero utopico — la rinuncia, quindi, a espandere le maglie del futuribile — è una delle principali critiche che Nick Srnicek e Alex Williams muovono alla sinistra in Inventare il futuro, il loro saggio-manifesto da poco tradotto in italiano da Nero. Da un lato, i partiti socialdemocratici si sono accontentati di proporre soltanto (quando è andata bene) timidi palliativi alle storture di un sistema neoliberale considerato per il resto sostanzialmente immutabile; dall’altro, le poche, deboli e frammentate formazioni di sinistra e i movimenti dal basso si sono stazionati perlopiù su posizioni difensive, incapaci di proporre un’idea alternativa e radicale di futuro.

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A questo arretramento, Srnicek e Williams — riprendendo e superando alcune delle posizioni già esposte nel loro Manifesto per una politica accelerazionista contrappongono un programma fatto di poche richieste molto chiare: piena automazione, piena disoccupazione, diritto alla pigrizia, reddito di base universale. La società futura che immaginano è simile a quella di alcune utopie della fantascienza novecentesca, in cui il lavoro produttivo è preso in carico interamente dalle macchine, liberando l’umanità dall’obbligo del lavoro. Detta così suona molto naive, e nell’acceso dibattito che è seguito alla prima pubblicazione del libro (nel 2015) non si sono risparmiate le critiche per tutto ciò che una simile visione del futuro manca di considerare.

Ma al di là della fattibilità e delle conseguenze di alcune singole proposte — la cui formulazione tranchant è volutamente provocatoria — il valore preliminare più importante di un lavoro come Inventare il futuro sta proprio nella rivendicazione di un pensiero che sia allo stesso tempo utopistico e attuale, come superamento delle piccolezze di quella che gli autori chiamano folk-politics — ovvero le battaglie difensive, localistiche, a protezione di margini di autonomia sempre più ristretti.

Srnicek e Williams cercano di sovvertire la centralità del lavoro come cardine unico della vita umana, contestando un principio che siamo abituati a dare per scontato, secondo cui “bisogna guadagnarsi il pane.” In questo, la richiesta più rivoluzionaria è forse quella apparentemente più banale — il diritto alla pigrizia, ovvero la possibilità di esistere come soggetti svincolati dall’imperativo della produzione. In Italia, dove è così diffusa la stigmatizzazione del “fannullone,” potrebbe essere un argomento inaspettato con cui far  breccia: pretendere una diversa distribuzione della ricchezza, rivendicare il nostro diritto a far nulla. Non suona male.


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