I rapper Pablo Rivadulla e Miguel Arenas sono stati condannati per esaltazione del terrorismo, insulti alla Corona e alle istituzioni statali applicando la legge liberticida sulla sicurezza pubblica voluta dal governo Rajoy.
Sono passati più di sei mesi dal referendum catalano per l’indipendenza, ma non bisogna sforzarsi troppo per ricordare le immagini della Guardia Civil schierata davanti ai seggi e la violenta repressione contro le successive proteste dei cittadini catalani. Una crepa che si era aperta in una Spagna già provata dalla crisi economica e da un governo che negli ultimi anni ha limitato sempre di più la libertà di espressione in tutte le forme — rap incluso.
Dal 2011 la Spagna è in mano al governo di Mariano Rajoy, presidente del Partito Popolare, una forza politica di centro-destra che, pur mantenendo una veste europeista, non può negare i legami con il capitolo precedente della storia politica spagnola: il franchismo. Il partito nasce infatti dalle ceneri di una serie di schieramenti successivi alla dittatura, tra cui Alleanza Popolare, fondata nel 1977 da Manuel Iribarne, ex ministro dell’informazione nel governo di Franco. Il declino della Spagna socialista, che si era riformata con le politiche di Zapatero, ha però avuto inizio con la crisi del 2008: da nazione economicamente prospera, la Spagna è caduto in una crisi profonda, colpita dalla disoccupazione e dalla minaccia del default.
Proprio le vicende del referendum catalano – alimentate da un clima d’odio sociale ancor prima che politico – hanno riportato nell’immaginario nazionale le modalità di censura dei governi franchisti, scatenando una dura reazione contro le leggi e i provvedimenti che ledono la libertà di espressione.
L’esempio più evidente della spinta censoria della politica spagnola è la cosiddetta ley mordaza (legge bavaglio), approvata nell’estate del 2015 dal governo Rajoy con il nome ben più istituzionale di Ley de Seguridad Ciudadana (Legge sulla sicurezza pubblica). Passata alla camera con più di 140 voti contrari, la legge prevede 44 casi punibili, che concedono al governo la facoltà di multare i cittadini con sanzioni che vanno dai 30 ai 600 mila euro. Spostare una transenna o un cassonetto, girare senza carta d’identità, travestirsi da poliziotto, ma anche il divieto di assemblee non autorizzate in piazza o l’interruzione di manifestazioni (partite di calcio, comizi, atti pubblici, ecc.), bere alcolici per strada e promuovere manifestazioni sui propri profili social, questi sono solo alcuni dei divieti imposti dal governo. Un vero e proprio bavaglio politico per tutte le voci schierate all’opposizione, definito da Amnesty International “una minaccia al diritto di manifestare.”
Tra febbraio e marzo, due casi hanno riportato l’attenzione sull’applicazione viziata della legge. Il rapper Pablo Rivadulla, in arte Pablo Hásel, è stato condannato nei primi giorni di marzo a due anni di carcere e a una multa di 24 mila euro per esaltazione del terrorismo, insulti alla Corona e alle istituzioni statali, espressi attraverso i testi delle sue canzoni. Solo un mese prima, il rapper Miguel Arenas Beltrán, in arte Valtonyc, era stato condannato per gli stessi reati a 3 anni e mezzo di prigione.
https://twitter.com/PabloHasel/status/969558472017743872
Canzoni come “Juan Carlos el Bobón” e “El Fascismo se cura muriendo” sono state considerate dai giudici forme di esaltazione del terrorismo e di ingiuria contro la famiglia reale, e non provocazioni, che invece costituiscono la base formale e stilistica del rap. La scelta di condannare i due ragazzi – uno di 30 anni e l’altro di 24 – dimostra la volontà del governo di arginare i movimenti di protesta che nascono dal basso, indebolendo una delle forme più aggregative di confronto popolare come il rap.
“Il re ha un appuntamento nella piazza della città
Una corda intorno al collo che cade sotto il peso della legge”
“Vediamo se sono colpevole io del fatto che il Re chiede denaro pubblico per andarsene a caccia o per pagare il silenzio delle sue amanti. Se viene chiesta la prigione per tutti i media che hanno parlato di questa storia, non ci sarebbero abbastanza carceri,” ha dichiarato Hásel durante il processo, riferendosi a una lunga serie di scandali che ha coinvolto negli anni l’ex re di Spagna, Juan Carlos.
L’arresto dei due rapper è solo una delle tante storture quotidiane della democrazia spagnola. L’Operación Araña, l’operazione della Guardia Civil avviata “per perseguire la glorificazione del terrorismo sui social network, in particolare su Facebook e Twitter,” dal 2014 ha portato davanti ai giudici più di 70 cittadini spagnoli. Non è difficile fare un paragone con quanto accaduto in Italia lo stesso anno dell’approvazione della legge bavaglio spagnola, quando lo scrittore Erri De Luca era stato portato a processo per le posizioni prese a favore del movimento No Tav nel suo libro Nemico Pubblico.
Dall’altra parte della barricata, l’esempio delle banlieue parigine – e ancora prima il legame tra l’hip-hop e la liberazione della cultura afroamericana dalle catene dell’America wasp – dimostra che l’attivismo veicolato dal rap funziona, il genere musicale nato in strada è un megafono potente per tutti coloro che si sentono privati di una rappresentanza politica. Questo il governo spagnolo l’ha capito e si è regolato di conseguenza per spegnere con reazioni legalitarie il maggior numero di voci. Come spiega Hásel in un video pubblicato su YouTube dopo la prima condanna: “Nello stato spagnolo la libertà di espressione e molti altri diritti non sono rispettati. Solo i fascisti mantengono la libertà di parola, e la usano per minacciare di morte i migranti, gli omosessuali e gli antifascisti.”
In uno stato in cui il primo partito del paese – il Partito Popolare – controlla più del 90 per cento dei mezzi di informazione pubblici e privati, gli attacchi contro le voci dell’opposizione sociale (più che politica) sono ancora più gravi e di pessimo auspicio per la salute della libera espressione in Europa.
Oggi in Italia il rap e le sue derivazioni, che negli ultimi anni hanno assorbito fette di pubblico sempre più vaste, non dimostrano lo stesso interesse per la politica dei loro cugini spagnoli. I ricordi delle posse e della carica anti-sistema della scena underground sono sbiaditi, coperti sempre di più dalla spinta del genere nei salotti mainstream — mentre le poche occasioni di dibattito si trasformano quasi sempre in farsa. Sembra anzi che l’unica forma di rap in grado di assumersi qualche responsabilità sia quella parodica, come dimostra il lol-rap di Bello Figo e lo sfogo razzista seguito alla trollata ad Alessandra Mussolini.
Difficilmente i testi del rap italiano sono riusciti a trasformare l’esperienza dei quartieri periferici e la volontà di una rivalsa sociale in un messaggio politico chiaro, in grado di sfidare, imbarazzare e mettere alla berlina il contesto politico del paese.
Qualche tentativo però c’è
Italiano Vero, primo album di Tommy Kuti, rapper bresciano di origini nigeriane, è una presa di coscienza senza retorica sulle difficoltà di vivere in un paese razzista. I testi delle sue canzoni non camuffano le stoccate ai politici e ai partiti, anzi le innalzano a manifesto artistico per spiegare cosa significa essere italiani in un paese che, se hai la pelle nera, non ti considera comunque tale.
Un altro tentativo di portare la politica nel rap è stato quello del rapper trentino Drimer, che qualche giorno prima delle elezioni ha pubblicato “Noi non vi vogliamo,” singolo che apre con le immagini del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, noto partigiano e figura politica antifascista, e chiama direttamente in causa Matteo Salvini e Roberto Fiore, il fondatore di Forza Nuova. “Il mio è il tentativo di ricordare ad una scena musicale italiana sempre più spenta e disinteressata – particolarmente nel rap – l’importanza di simili appuntamenti e della necessità di uno schieramento chiaro e puntuale da parte degli artisti” ha dichiarato il rapper all’Adige.
L’Italia è un paese che, come la Spagna, ha bisogno di un coinvolgimento del rap e di tutte le forme artistiche nel dibattito politico, per testimoniare la possibilità di esprimere apertamente il proprio pensiero in un clima di censura e oscurantismo. Se – come scriveva a novembre Andrea Girolami su Rolling Stone – l’aumento di tensioni sociali e politiche sarà l’ultimo doloroso ingrediente per la rinascita di un rap dall’animo politico, dovremo però essere altrettanto pronti a difendere le scelte artistiche di chi si sarà schierato dalla parte dei deboli.
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