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Trent’anni da Viva Hate, il primo album da solista di Steven Patrick Morrissey, e l’occasione di raccontare una vita vissuta da outsider.

Nel maggio del 1987 il chitarrista Johnny Marr lascia gli Smiths, freschi di registrazione di quello che sarà il loro ultimo album Strangeways, Here We Come, nel momento di maggior successo della band per motivi apparentemente ignoti. È lo stesso Morrissey, cantante e co-fondatore della band, a descrivere nella sua Autobiography (2013) la registrazione di quel disco come “the most joyful and relaxed Smiths studio session, with crates of beer wheeled in at the close of each day and no war in sight.” La rottura lascia evidentemente tutti col fiato sospeso, non solo Joyce e Rourke, gli altri componenti della band, ma anche i fan e la stampa inglese, che si chiedono quale possa essere, a questo punto, il futuro dei musicisti.

Sarà Morrissey a soffrire di più l’abbandono di Marr: lontano dal pensare che gli Smiths sarebbero svaniti così presto, il cantante è costretto a reinventarsi e a dare una svolta alla sua carriera musicale, mettendo a tacere gli echi nella sua testa che gli sussurrano di non essere all’altezza degli anni gloriosi della band. Viva Hate – suo primo album da solista di cui oggi festeggiamo il trentennale – è solo il primo degli undici album pubblicati da Morrissey/Moz/Mozza, consolidando la sua immagine come uno dei più importanti lyricist per tutte le generazioni che la sua musica ha attraversato — nonché icona dell’indie e del britpop a livello universale.

Steven Patrick Morrissey nasce da genitori irlandesi cattolici il 22 maggio 1959 a Davyhulme, un borgo metropolitano della “forgotten Victorian knife-plunging Manchester,” città che percepisce da subito come ostile e da cui scapperà il prima possibile. La sua vita – come descritta nella sua autobiografia – comincia in maniera quasi aneddotica: a causa della testa troppo grossa rischia di procurare seri danni di salute alla madre, tanto da dichiarare di averla quasi uccisa al momento del parto, dopo il quale verrà ricoverato in ospedale con poche possibilità di sopravvivere. A questo si aggiunge infine la sorella maggiore, Jackie, che tenterà più volte di ucciderlo. La sua infanzia pare costellata di momenti difficili e di insuccessi, a cominciare dalla frequentazione di scuole che imprimono su di lui ricordi indelebili legati all’atteggiamento violento e sadico dei professori

Steven non è un bambino socievole, non è particolarmente bravo a scuola se non in atletica e spesso viene ripreso dagli insegnanti. Ma in lui è già vivo quel talento artistico che lo accompagnerà per il resto della sua vita. Si isola per ascoltare musica, per scrivere, ma soprattutto per leggere intensamente i suoi autori preferiti, tra cui Oscar Wilde, del quale quota come sua frase preferita “We are who we are, having secretly decided who we like to be” — citazione che rappresenta alla perfezione l’ascesa del giovane Morrissey. Wilde ha una forte impronta su di lui anche grazie alla madre Betty, con la quale avrà sempre un profondo legame affettivo e un proficuo scambio intellettuale, a differenza del rapporto burrascoso con il padre, che abbandona lui e la famiglia. La figura materna, con il suo continuo supporto a discapito di qualsiasi decisione presa dal figlio, fu probabilmente uno dei pochi spiragli di luce nell’oscurità della difficile adolescenza di Steven, talmente odiata al punto da rinnegare il suo nome di battesimo e diventare semplicemente Morrissey — come a voler nascere una seconda volta.

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Altre icone di questi anni sono James Dean e The New York Dolls, di cui scrive biografie e a diciott’anni fonda il fanclub di quella band dalla sessualità e dai vestiti così eccentrici e allo stesso tempo attraenti. Guarda con ammirazione David Bowie (che anni più tardi lo chiamerà nel suo studio di registrazione per fargli ascoltare una cover di I Know It’s Gonna Happen Someday), partecipa a diversi concerti dei suoi artisti preferiti in giro per l’Inghilterra, assiste a un live dei Sex Pistols e sale sul palco lui stesso, in veste di cantante prima dei Nosebleeds e poi degli Slaughter & The Dogs. Il fallimento di entrambi questi esperimenti portano Steven a un periodo di grande depressione, come messo in scena, drammaticamente, nel recente film England is Mine (2017), che raffigura la sua vita dall’età adolescenziale all’incontro con Johnny Marr.

Morrissey non ha mai nascosto la sua perpetua lotta contro il black dog, che lo accompagna sin dalla giovane età e poi soprattutto nel periodo di attività con gli Smiths. Il cantante ha recentemente sostenuto in un’intervista di aver provato ad alleviare la depressione con tutti gli psicofarmaci possibili ma di non esserci mai veramente riuscito, pur senza arrivare mai al punto di volersi fare del male. Così da rendere il palco, per lui, l’unica vera cura, nonché l’unico posto dove può davvero trovare un attimo di pace e serenità. Sarà questo il motivo del profondo spaesamento che lo coglierà dopo l’abbandono di Marr: non solo la sua anima gemella, musicalmente parlando, ma anche colui che in questi anni difficili era riuscito a percepire il suo disagio e a risollevarlo dai momenti più bui.

Gli Smiths nascono nel 1982 quando Morrissey apre letteralmente la porta di casa a Johnny Marr, anch’egli amico dello stesso Billy, chitarrista dei Nosebleeds, che aveva introdotto Steven nella band. Finalmente Moz trova il suo “life’s first pleasure” in uno dei momenti più oscuri per la sua salute mentale (“I had no doubt that my life was ending, as much as I had no notion at all that it was just beginning”). La band – che debutta al Ritz di Manchester il 4 ottobre con una formazione non ancora definitiva – ha un nome singolare nella sua più completa neutralità e infatti viene scelto come inno all’ordinario, a tutte quelle ordinary faces che, secondo Morrissey, era ora che si mostrassero.

Gli Smiths sono per Morrissey un’esperienza che si rivelerà poi contraddittoria  nonostante il grandissimo successo che riscuotono e la grande eredità che lasciano al mondo della musica moderna. Nelle interviste durante il loro periodo di successo, Morrisey descrive i suoi musicisti come i suoi unici amici e la sua posizione tra di essi come molto felice, in quanto gli era concesso di fare ed essere ciò che voleva. In interviste recenti però, corresponsabile forse anche la condizione dei rapporti odierni tra gli ex membri, Morrissey si distacca parzialmente dall’esperienza musicale che lo ha portato alla fama e al successo, dicendo a Larry King: “We were very young, we didn’t know what we were doing and we didn’t like each other that much.”

 Così che il proficuo periodo con gli Smiths appare come uno step obbligato per realizzare più concretamente il suo sogno di bambino che, va sottolineato, non è mai stato la fama in sé e per sé, ma più genuinamente il poter cantare e il potersi esprimere in maniera assolutamente libera tramite le proprie canzoni. Nelle prime pagine dell’autobiografia, le più diaristiche, è lui stesso a dire “If I can barely speak, then I shall surely sing […] If I can sing I am free” mentre sotto una delle ultime foto che lo raffigura sul palco si legge la didascalia This microphone is my headstone: un’immagine potente che sottolinea quanto davvero il veicolo musicale sia stato e sia tuttora importante per esprimere ed essere se stesso. 

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Provocatoria, contraddittoria e sempre molto critica, la figura di Morrissey, così come la sua musica, è da sempre contraddistinta dalla scelta vegetariana e dalla forte vis polemica che fa da contraltare alla sua tenera anima poetica. Alla sola età di undici anni, quando era ancora Steven, sceglie di diventare vegetariano dopo aver assistito in televisione a programmi controversi con immagini sulla macellazione degli animali che lo portano a rifiutare la carne. Risulta chiaro perché Morrissey, da qualche anno addirittura vegano, abbia fatto del vegetarianismo la sua crociata personale, a partire da Meat is Murder (1985), primo disco di una band mancunian a raggiungere la prima posizione nella UK Chart, con membri opposti all’abuso e alla tortura degli animali allora protetti dalla legge inglese, complice anche la medesima scelta culinaria di Marr.

Questa crociata, dietro cui si cela una scelta profondamente etica a difesa del pianeta, si lega strettamente alle posizioni critiche, talvolta pesanti e volutamente provocatorie, che Morrissey prende nei confronti di qualsiasi situazione o persona che non rispetti la sua visione del mondo. Prende le difese degli animali a qualsiasi costo, arrivando a porre il loro macello quotidiano sullo stesso piano dell’olocausto, andando sempre conto le grandi catene di fast food quali McDonald’s e KFC.

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Gli onnivori però non sono gli unici a subire le critiche del nostro Moz, che ne ha una per tutti e non risparmia nessuno, come d’altronde afferma lui stesso in You Are The Quarry: “I’m not sorry for the things I said, / there’s a wild man / in my head”. Egli ha da sempre criticato il Regno Unito e praticamente tutto ciò che lo riguarda, da Winston Churchill alla regina Elisabetta (The Queen is Dead, album più celebre degli Smiths, ha in questo senso un titolo parlante), dalla famiglia reale in generale a tutto il popolo inglese, tanto da venir accusato di razzismo dai suoi stessi concittadini. Ultimamente ha sostenuto la parte del Leave al referendum della Brexit e ha rilasciato dichiarazioni controverse per quanto riguarda gli attacchi terroristici dello scorso maggio a Manchester, la denuncia per molestie sessuali verso Harvey Weinstein e Kevin Spacey e persino contro la polizia romana, motivo per cui avrebbe deciso che il tour del suo ultimo album Low In High School non avrebbe toccato l’Italia.

Niente di cui stupirsi da colui che ha scritto Margaret On The Guillotine, canzone contro Margaret Thatcher che ha portato la polizia inglese a perquisire il suo appartamento, o che ha disprezzato un intero genere musicale quale il reggae, descritto come razzista verso coloro che non sono di colore, o che spesso ha rifiutato di esibirsi o interrotto i concerti dopo pochi minuti per motivi di permalosità. Continui comportamenti e asserzioni più o meno infelici e opinabili, che sono comunque parte integrante della sua personalità artistica e che non possono essere rinnegati se li leggiamo come una profonda fedeltà a se stesso.

Certo non è facile sostenerlo in queste sue uscite devianti, ma è sempre importante considerare il background da cui un artista proviene, per riuscire ad interpretare la sua opera e la sua vita nella maniera più completa possibile. D’altronde è lui stesso, sempre nella sua autobiografia, a difendersi dagli attacchi della stampa e delle persone a lui attorno che lo dipingono costantemente come un outsider, irrimediabilmente contro tutti: “Well, yes, of course I’m a bit much – if I weren’t, I would not be lit up by so many lights.”


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