Quando la musica incontra l’immagine. Intervista a Rhò

Negli anni scorsi Rhò ha collaborato alla produzione di “Killing Kennedy” di Ridley Scott, ha lavorato come consulente musicale per “The Young Pope,” e per la produzione Rai Cinema “Il padre D’Italia.”

Quando la musica incontra l’immagine. Intervista a Rhò

Il 2 febbraio è uscito per Gibilterra/Believe “Neon Desert,” il nuovo disco di Rhò  – Rocco Centrella. “Neon Desert” è un album neo-soul denso di suggestioni visive che “nasce nella notte e si sposta nel giorno”. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Negli anni scorsi Rhò ha collaborato alla produzione di “Killing Kennedy” di Ridley Scott e ha lavorato come consulente musicale per l’episodio speciale della serie “The Young Pope,” diretta da Paolo Sorrentino e prodotta da HBO, e per la produzione Rai Cinema “Il padre D’Italia” con Luca Marinelli e Isabella Ragonese.

Come stai?

Tutto bene. Tu sei qui a Roma?

No, sono a Milano… Ah giusto, starai vivendo “l’emergenza neve”!

(ride) Ma che emergenza, diciamo che sono dei giorni divertenti. Secondo me si vive meglio in giornate come queste che in altre. C’è un piacere a passeggiare, i mezzi funzionano meglio, Roma sembra quasi una città europea.

Mi piacerebbe ti presentassi scegliendo tre film che a tuo parere ti rappresentano bene.

Vediamo, c’è tantissima roba che potrei dirti. Allora, uno che mi rappresenta tanto è sicuramente “Fantasia” di Walt Disney e questo qui lo scelgo un po’ per la combinazione musica-immagine e tutto l’approccio sinestetico. Perché è un film che da bambino divoravo pur non essendo probabilmente capace di capire cosa stesse accadendo. Un altro, rimango nell’animazione, è “Les Triplettes des Belleville”. È fantastico, è un film d’animazione francese con un’ironia assurda, allucinante, non ci sono dialoghi però è grottesco, super divertente. Un altro che penso possa rappresentarmi tanto è “Moon”.

Che poi era anche un pretesto per chiederti di parlarmi della collaborazione con Ridley Scott.

È stata un’esperienza abbastanza bizzarra. Tutto è accaduto ad agosto 2013, se non erro. Ad un certo punto mi arriva questo messaggio da una persona che conoscevo da tempo che viveva a Washington. Mi disse, guarda ci sarebbe l’occasione di comporre un brano per questa produzione di Ridley Scott. Io all’inizio pensavo fosse uno scherzo perché era tipo il 13 di agosto e mi stavo preparando al weekend di ferragosto. Invece poi, in realtà, è andata così: questa persona che faceva parte del gruppo creativo che stava lavorando per la produzione del film ha messo sul tavolo il mio primo disco – “Kyrie Eleison” – che aveva delle influenze che erano molto nordeuropee rispetto alle cose che ho fatto successivamente e quindi, ispirati da questa cosa, mi hanno chiesto di mandare dei provini entro tipo tre giorni. Era ferragosto, appunto, e mentre gli amici erano in giro a divertirsi io stavo a casa a sudare, a fare questa cosa. Alla fine mando tutto e, come il più delle volte accade, alla fine viene scelta l’ipotesi più distante che in realtà serve per convincere sulle due che sono in brief. Una di queste due seguiva un’idea personale ed era appunto As You Hope, che è stata utilizzata per la promozione del film prodotto da Ridley Scott, “Killing Kennedy”.

Hai lavorato molto nel cinema e in televisione dedicandoti anche alla consulenza musicale per la produzione RAI Cinema “Il padre d’Italia” con Luca Marinelli e Isabella Ragonese e per l’episodio speciale di Young Pope, diretta da Paolo Sorrentino e prodotta da HBO. Normalmente la domanda potrebbe essere come cambia l’approccio alla scrittura nei due casi. Ascoltandoti però mi sembra che il modo di concepire la musica sia in realtà sempre uguale. In fondo “Neon Desert” è ricco di immagini, c’è una spinta evocativa molto forte. Lo sbocco verso il cinema o la televisione mi sembra quasi naturale.

Cogli perfettamente. Col passare degli anni cerco di evolvere la coniugazione tra musica e immagini. Questa cosa è sempre esistita, c’è sempre stata. Se ti dovessi parlare di “Neon Desert” ti direi delle cose che probabilmente prescindono dal fatto che questo disco sia legato a delle immagini. Però tu hai perfettamente ragione, si lega a delle immagini. A un primo livello di lettura pensi che io sia quello, una persona che ha studiato musica, che ha studiato cinema e ha sviluppato delle capacità compositive in quella direzione e ora, in questo mondo qui, cerca di raccontare qualcosa di più. Questo qualcosa in “Neon Desert” è un mondo notturno, un mondo più elettronico. Però rimango ancorato sempre a quell’idea di evocare delle immagini, una cosa che però mi viene in maniera molto spontanea, che quasi non controllo.

Mi è piaciuto moltissimo il video di Cross, l’ho guardato un sacco di volte, ma non sono sicuro di averlo capito fino in fondo.

Però se adesso te lo spiego poi non li riguardi più! (ride)

Prometto di riguardarlo. Dove è stato girato?

A Lanzarote, a dicembre. Volevamo che il video raccontasse uno scenario che non fosse chiaramente identificabile, sia dal punto di vista spaziale che temporale. Volevamo una dimensione in cui l’elemento umano fosse presente solo attraverso i personaggi, tant’è che in tutte le inquadrature se ci fai caso non è presente né una casa né una strada. Abbiamo fatto una grande attenzione nella scelta delle location affinché non ci fosse mai la presenza del passaggio di un essere umano se non di quella del personaggio inquadrato. Come se per la prima volta quello spazio fosse stato calpestato in quel momento, in quel preciso istante. Proprio perché volevamo rendere l’idea fuori dal tempo, fuori dallo spazio. C’è un personaggio che racconta un’evoluzione della specie umana. Sembra muoversi in una maniera sgrammaticata ma poi assume un senso perché racconta un’evoluzione, una presa di coscienza che nella parte finale la porta a sopravvivere anche a quelli che sono i suoi demoni, a continuare ad andare avanti finendo quasi col diventare un dio di sé stessa.

Ma è possibile che abbia sentito Cross su History Channel all’interno di una pubblicità?

Mi sa che non è Cross ma Black Horse.

Ok, la sto sentendo da un paio di settimane tutte le mattine, solo che viene trasmesso un frame brevissimo e non sono mai riuscito ad individuarla.

(ride) Vedi, le congiunzioni, manco a farlo apposta.

Veramente… Tornando a “Neon Desert.” Il disco dici che vuole ricondurre a una dimensione accogliente. In realtà a me è sembrato a tratti anche abbastanza cupo. Ti dirò, mi è piaciuto anche perché non l’ho trovato un album rassicurante rispetto a quello che magari ascoltiamo di solito.

Si, hai perfettamente ragione. L’idea che c’è dietro a questo disco è quella di fare un qualcosa prima di tutto che racconti al meglio me in questo momento. Sicuramente sono cambiato rispetto a prima quindi tutta la parte più eterea ha avuto una trasformazione, una dimensione più cupa, non perché mi sia incupito io ma semplicemente perché la mia ricerca si è spostata su altri orizzonti musicali. Però diciamo, la dimensione rassicurante sta nel fatto che rispetto a un prodotto che possa essere puramente, direttamente oscuro, questo disco ti porta sempre a una sorta di intimità, di contatto con te stesso. È lì che si risolve il discorso dell’accoglienza.

L’album è pieno di strumenti, cori, voci ma ha il pregio di suonare veramente bene. A chi va il merito di aver reso il tutto così coerente?

Diciamo che questo disco qui ho voluto che seguisse un processo diverso dagli altri. Prima di “Neon Desert” ho lavorato sempre da solo, nella mia camera da letto, dove facevo pre-produzione, registravo, mixavo. In questo caso ho voluto che ci fosse a lavorare con me già sui provini in pre-produzione Stefano Mirella, che è un batterista che ha dato un taglio ritmico, anche di ricerca, aggiungendo degli elementi che io non avrei mai potuto aggiungere. In realtà lui ha completato anche la dimensione sonora. Ha sicuramente contribuito tanto anche a potenziare quello che già c’era. In un secondo momento penso anche a Jo Ferlinga degli Aucan, che ha curato il mastering lavorando suoi suoni in un certo modo, rispondendo alla mia richiesta di mantenere una dimensione sonora che fosse d’impatto senza camuffare la voce, evitando di immergerla in un mondo che potesse essere reputato finto. Quindi la voce ha sempre una posizione centrale, una sua pulizia, in modo da far capire che nonostante la sintesi di suoni, il mondo elettronico, comunque l’elemento umano continua a rimanere centrale, ad avere la sua importanza senza avere troppi artifici.

In generale pensi che la musica debba veicolare anche un messaggio? Te lo chiedo per due motivi, sia perché viviamo un po’ l’epoca delle canzoni-ritratto che nella maggior parte dei casi si esauriscono appena finisce la traccia, sia perché nelle tue canzoni il messaggio c’è (penso ad esempio a Lies, scritta durante le mobilitazioni in tema di diritti per la comunità LGBTQIA+).

Io penso che comunque, almeno nel mio caso, la musica, la scrittura, quello che dico nelle mie canzoni, in un modo o nell’altro abbia bisogno di un espediente che viene dalla mia condizione di vita nel momento in cui sto scrivendo. E penso che questa cosa risponda un po’ a tutti gli artisti, da chi ha bisogno di lanciare un messaggio a chi ritrae semplicemente un’immagine. Naturalmente in questi ultimi due anni il mio percorso di vita mi ha portato ad analizzare le cose in un certo modo, a vederle in una certa maniera e quindi la cosa più spontanea che mi è venuta è stata scrivere in determinati casi di questioni che secondo me meritano delle sottolineature importanti soprattutto nel nostro contesto. Probabilmente tra qualche anno cambierà la mia esigenza e scriverò d’altro però secondo me la cosa bella e fondamentale della musica è che riesce ad essere un contenitore di cose talmente diverse tra di loro che assumono valore nel momento in cui rispondono all’onestà artistica di chi le scrive. Nel momento in cui c’è onestà ogni cosa ha un suo valore, con o senza messaggio.

In Whatever mi ha stupito il fatto che ci sia un coro di suore svedesi. Dove l’avete registrato?

A Roma. È stato durante un weekend di pre-produzione. Abbiamo fatto una passeggiata, era una domenica pomeriggio e ad un certo punto sentiamo un coro per le strade. Come un’epifania, ci siamo detti sta accadendo qualcosa di allucinante. Così ci siamo buttati in chiesa e c’era questo coro svedese che stava facendo tipo un concerto alle quattro di pomeriggio e la fortuna è stata quella di avere un iPad proprio lì. Abbiamo registrato una decina di minuti e poi, grazie alle fortune della tecnologia, siamo riusciti a intonare i campioni rendendo le suore delle special guest del brano.

A Milano invece quando verrai a suonare?

Stiamo pianificando. Anzi in realtà stiamo cercando di capire qual è il momento giusto. Però, sicuramente, ci sarà una data prima dell’estate.