La desertificazione inarrestabile del Sahel sta rendendo invivibile un’intera regione del continente africano: è un problema da cui la politica europea non può (piú) scappare.
contenuto sponsorizzato da “Changes. Il magazine del Gruppo Unipol.”
La definizione di “migrante climatico” è molto complessa. Gli eventi causati dalla crescente variabilità climatica sono così vari e imprevedibili che definire chi sia un migrante climatico è difficile, o forse impossibile.
Esistono i casi di migranti climatici in senso stretto, come gli agricoltori che devono spostarsi di fronte all’avanzata del deserto, ma ricadono in questa definizione anche persone che fuggono da conflitti o instabilità provocati dalla mancanza di risorse direttamente causata dal cambiamento climatico, o chi deve spostarsi in seguito a catastrofi imprevedibili.
Lo IOM (Organizzazione mondiale per le migrazioni) prova a definire il fenomeno come “persone o gruppi di persone che, principalmente perché colpiti negativamente dal cambiamento, improvviso o progressivo, nell’ambiente, sono costrette a abbandonare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si spostano all’interno del proprio paese o all’estero.” (Glossary on Migration, International Migration Law, no. 25, 2nd Edition, IOM, Ginevra, 2011, p. 33). Si tratta insomma, di una migrazione forzata che riguarda molte piú persone di quante in genere si pensi.
Il legame tra instabilità geopolitica e cambiamento climatico è forte quanto invisibile, e ignorato da una fetta di politici ancora piú ampia di chi già nega il cambiamento climatico.
È il caso dei migranti provenienti da vari paesi del Sahel, a sud del deserto del Sahara, che vengono puntualmente considerati dall’Unione Europea come “migranti economici,” e che la nostra politica usa volentieri come punching ball di retorica razzista e retrograda. Sono paesi come il Senegal, l’Algeria, la Nigeria e l’Eritrea — tra gli altri. Tutti i paesi della fascia del Sahel sono considerati dalla Banca mondiale come fragili — a causa di alti livelli di povertà, conflitti costanti, e governi tradizionalmente debolissimi. Secondo i dati raccolti lo scorso anno dall’OCHA, il 60% della popolazione della regione — 150 milioni di persone — è impiegata nell’agricoltura pluviale.
Catalogare come migranti economici persone che si vedono costrette a migrare di fronte a una desertificazione che avanza di vari chilometri l’anno è una lettura iperpoliticizzata di un problema da cui non si può scappare.
La migrazione, ovviamente, non è diretta, e sono tantissimi i fattori che offuscano il rapporto di concausa. Sara Vigil scrive, per “Out of Africa: Why People Migrate” (LediPublishing, ISPI, Milano, 2017) che “molteplici studi hanno sottolineato come nei periodi di siccità i fenomeni migratori diminuiscono. Questo è perché le persone usano le proprie ultime risorse per i bisogni primari (come il cibo), e non hanno quindi le risorse per imbarcarsi in viaggi piú lunghi.”
Le politiche che mirano a tenere il problema dei rifugiati fuori dal blocco europeo sono scandalosamente miopi. Spostare le cause della migrazione, anche quelle considerate strettamente politiche o economiche, nel contesto del cambiamento climatico rivela un’evidenza innegabile: che le grandi migrazioni dall’Africa subsahariana sono appena iniziate. La proiezione piú citata è quella firmata da Norman Myers, che calcola 200 milioni di persone costrette ad abbandonare la propria casa entro il 2050. Secondo dati raccolti da diverse organizzazioni umanitarie che operano nella zona, il 30% degli abitanti della zona del Sahel del Burkina Faso hanno dovuto migrare negli ultimi vent’anni.
La situazione è sistemica e riguarda l’intera fascia del continente — un abitante su quattro dell’Africa subsahariana vive in condizioni di malnutrizione. Sono 220 milioni di persone, che nel 2050 secondo le proiezioni di Meyers diventerebbero 330.
Malgrado queste condizioni di totale costrizione, i migranti saheliani non sono considerati tecnicamente rifugiati. Questo principalmente perché lo status di rifugiato riservato esclusivamente a chi si muove costretto da persecuzioni, è descritto da un documento molto datato, definito nel 1951 — anche se nel contesto politico mondiale contemporaneo i suoi contenuti sono di un’ambizione umanitaria sempre piú lontana alle sensibilità attuali, quasi un relitto di un momento di maggiore civiltà.
Ci sono voci che sostengono che le vittime del cambiamento climatico dovrebbero rientrare in questa definizione. È l’opinione, tra gli altri, anche di Alice Thomas, manager del programma di migrazioni climatica di Refugees International. “Per i poveri saheliani che devono ‘andarsene o morire qui’ — come una donna ha descritto il suo dilemma — leggi e politiche offrono protezione limitatissima, e pochissime soluzioni sul lungo termine,” dice Thomas.
“Negli ultimi 40 anni le temperature nella regione sono cresciute costantemente e la siccità è diventata un problema sempre piú costante e severo,” si legge in uno studio congiunto UNEP – IOP del 2011 coordinato da Alhousseïni Bretaudeau. La soluzione è ovviamente applicare politiche di adattamento al cambiamento climatico e cosviluppo — ne parleremo subito — ma non è possibile ignorare la necessità di gestire lo spostamento di persone causato da un evento di cui è fondamentalmente nostra la responsabilità.
Di fronte alla crescente povertà sono tantissime le persone saheliane che si trovano costrette a vendere i propri ultimi averi — spesso semplicemente, il proprio ultimo bestiame — per finanziare il proprio viaggio, arrivando a destinazione, sia all’interno del proprio paese che all’estero, in condizioni di estrema povertà — condizioni dalle quali nel labirinto di leggi e regolamentazioni internazionali diventa sostanzialmente impossibile risollevarsi.
La soluzione “aiutarli a casa loro” è inadeguata almeno quanto è odiosa. Quello che è necessario è un piano di cosviluppo che permetta all‘intera zona di uscire dalla povertà — e questo è possibile farlo solo attraverso investimenti, privati e pubblici, da donatori internazionali, sostanziali. È la tesi sposata anche da Grammenos Mastrojeni, responsabile ambiente del ministero degli Esteri italiano, e illustrata durante la presentazione del primo numero dell’edizione cartacea di Changes, magazine del gruppo Unipol.
Mastrojeni: “Che cos‘è il border bias? La tendenza a ignorare le conseguenze fuori dalla propria tribù, fuori dai propri confini, oggi.”#ChangesUnipol pic.twitter.com/FuHUN28qft
— The Submarine (@infosubmarine) February 27, 2018
È qui che crolla lo specchio isolazionista di così tante forze politiche europee, l’attivazione di piani globali non dipende dalla mancanza di risorse, ma da una visione politica necessaria per implementarli. Sollevare la zona al di sopra della povertà è anche negli interessi dell’Unione Europea — che dovrebbe vedere nell’Africa il proprio potenziale partner commerciale principale, al di là delle proprie responsabilità etiche e morali.
La fascia del Sahel ha necessità di politiche di adattamento al cambiamento climatico che vanno redatte accettando la realtà dei conflitti locali, e la presenza di fortissimi flussi migratori; programmi che risolvano problemi fondamentali di accesso e disponibilità di risorse naturali, in modo da garantire nuove possibilità di sviluppo. Si tratta di programmi difficili da stilare ma di cui esistono già bozze, che devono partire dal presupposto di combattere le ineguaglianze, di gruppi sociali quanto di etnia e di genere.
Sono necessari nuovi meccanismi di cooperazione regionali coordinati attraverso le varie organizzazioni delle Nazioni Unite — in particolare con l’obiettivo di creare un nuovo framework di leggi e norme sull’uso delle risorse naturali.
Si tratta, sostanzialmente, della necessità di ridefinire le proprie priorità: la presenza di flussi migratori intensi, di conflitti e governi instabili nella regione dovrebbe essere per l’Unione Europea motivo di investimento, concentrandosi sulle zone e le comunità piú fortemente colpite dal cambiamento climatico, o comunque dove le condizioni di vita sono piú fragili e a rischio.
Fondi per l’attivazione di programmi come questo esistono già, non vanno organizzati e non rappresenterebbero nuovi costi per i singoli stati — basti pensare al Fondo per il clima dell’UNFCCC. Si tratta, in ogni caso, di interventi il cui costo è irrisorio in proporzione al risultato: il paper di UNEP – IOP sopracitato pone il costo dell’attivazione di meccanismi di adeguamento su tutta la fascia attorno ai 12 milioni di dollari, compresa la costruzione di una nuova rete di stazioni meteorologiche e l’organizzazione di autorità nazionali e regionali per la pianificazione dell’adeguamento. Per fare le dovute proporzioni: all’ultima spending review questa cifra è l’equivalente di circa 4 ore di attività della Difesa dello Stato italiano.
Parlare di green economy per zone in profonda difficoltà come quelle dell’Africa subsahariana suona nell’attuale contesto socio-politico come un’idea rivoluzionaria, ma si tratta di una soluzione necessaria a un problema che finora abbiamo affrontato a stento alla giornata.
Senza una radicale ristrutturazione dei sistemi agricoli della regione il cambiamento climatico eroderà quello sviluppo che il continente è riuscito a strappare — con la forza — in queste decadi. Lo sviluppo di soluzioni ecologiche per l’Africa subsahariana vuol dire creare nuove possibilità di impiego specializzato. Una crescente industria agricola, capace di produrre posti di lavoro ben retribuiti e adeguata al cambiamento climatico, sarebbe una risorsa insostituibile nella lotta alle tensioni intestine di ogni paese presente nella zona — un altro mondo rispetto alle dannose politiche che vogliono risolvere il problema semplicemente addestrando e armando meglio uno dei fronti in battaglia.
Soluzioni al problema sono discusse dai primi anni cinquanta, quando Richard Barbe Baker per la prima volta presentò l’idea di costruire una Grande Muraglia Verde larga 50 km per contenere il deserto. L’idea è stata periodicamente riproposta, prima nel 2002 e poi nel 2005. Teoricamente la costruzione sarebbe in corso, con lavori in Burkina Faso e Senegal. Lo scorso settembre Amelia Martyn–Hemphill si è recata in Senegal per BBC per osservare come la costruzione del Muro stesse procedendo. Il paese ha già piantato 11 milioni di alberi, ma si tratta solo dell’inizio. La creazione di una barriera verde permette di bloccare l’avanzata del vento desertico che brucia le piantagioni circostanti immediatamente a sud. La situazione è così drastica che piantare e mantenere 11 milioni di alberi consuma meno acqua che contrastare i venti del deserto. Le foglie delle piante permettono di creare compost, e l’umidità prodotta dai tronchi, insieme all’ombra, riduce drasticamente il costo di mantenimento delle coltivazioni e degli orti. Le radici delle piante trattengono l’acqua nel terreno, ridando vita a pozzi che erano rimasti completamente a secco per anni. Gli effetti locali della Grande Muraglia Verde non sono solo ambientali — solo nella zona i nuovi campi coltivati hanno reso possibile l’assunzione di duemila donne.
La Grande Muraglia Verde è, questo sì, un progetto grandioso, in termini di risorse e tempistica. Ma solo attraverso il coraggio di avviare progetti come questo possiamo ridefinire le condizioni di vita nella fascia del Sahel e discutere seriamente di nuove politiche per l’Africa.
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Photo credit (in order): Pablo Tosco/Oxfam, Françoise Guichard/Laurent Kergoat/CNRS, UNHCR, European Commission DG ECHO, Adam Jones. Mappa: illustrazione the Submarine su elaborazione Wikimedia Commons.
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