Lady Bird e Call Me By Your Name: il coming-of-age a confronto

Quest’anno possiamo dire che l’Academy ha contribuito a creare una bella coppia con un denominatore comune: il genere coming-of-age.

Lady Bird e Call Me By Your Name: il coming-of-age a confronto

Se in due è amore, quest’anno possiamo dire che l’Academy ha contribuito a creare una bella coppia con un denominatore comune: il genere coming-of-age.

Era American Beauty nel 2000 a inaugurare la fortunata serie di statuette e candidature attribuite negli ultimi anni a pellicole che ripercorrono il periodo della formazione. Se nel film di Sam Mendes si parlava di Lester, un uomo insoddisfatto della sua vita che si rende conto di non aver mai avuto il coraggio necessario per diventare davvero adulto, nelle rappresentazioni più recenti il focus si è spostato nuovamente sul periodo cruciale dell’adolescenza.

Solo l’anno scorso, in una corsa all’Oscar very indie, i membri dell’Academy avevano premiato come miglior film Moonlight, un ritratto introspettivo e sociologico di un ragazzino di colore omosessuale intrappolato nella comunità criminale di Miami. Nel 2016 – anno che ha visto salire alla presidenza Donald Trump, rappresentante di una politica maschilista, bianca ed eteronormativa – il ruolo di questo film è stato importante proprio per il tentativo di rappresentare minoranze ma sopratutto storie e personaggi mai approdati sul grande schermo.

Quest’anno, ancora in clima di pronostici, vediamo nella lista delle candidature a miglior film due pellicole: Chiamami col tuo Nome e Lady Bird, che ripercorrono sì lo stesso filone, ma concentrandosi soprattutto su momenti di vita sempre più universali e trasversalmente condivisi. C’è un ritorno a quella che è l’essenza del coming-of-age: un genere che, come nei romanzi di formazione, pone molta attenzione alla crescita psicologica e morale del protagonista.

Lady Bird

Greta Gerwig, 34 anni, è una delle giovani paladine del cinema indiewood americano: una zona ‘virtuale’ del mercato che si vuole indipendente anche se regista e/o attori appartengono all’universo mainstream e in cui i budget non sono proprio alla portata di un filmmaker indipendente — film d’essai alternativi ai prodotti commerciali.

La sua carriera non sembra prendere subito la direzione che conosciamo adesso, quando al Bernard College di New York decide di non studiare più musical teatrale ma filosofia. La passione però rimane latente. Nel 2006, ancora al college, iniziano le sue prime apparizioni in ruolo di attrice. La flessibilità della Gerwig si rende visibile quando, non ammessa al Master di sceneggiatura, entra a far parte di alcuni film mumblecore – genere caratterizzato da un bassissimo budget e accomunato dal fatto che tutti i protagonisti borbottino, i mumbling characters –in collaborazione con il regista Joe Swanberg — da cui adesso si distacca completamente. Lo ricorda non solo un periodo di nuove possibilità, ma anche come un momento che non dava piena soddisfazione a tutte le sue aspirazioni artistiche.

La sua fama di attrice è legata anche al fortunato sodalizio con il regista e suo attuale compagno Noah Baumbach (dalla cui collaborazione è nato, nel 2012, Frances Ha). Ma la Gerwig non ama affatto essere definita una musa: nonostante il suo ruolo sia stato paragonato a quello di Diane Keaton durante la collaborazione con Woody Allen, lei smentisce, e senza troppi giri di parole afferma di non aver avuto bisogno di un uomo, ce l’avrebbe fatta comunque. Greta Gerwig, è infatti l’unica donna ad essere stata nominata quest’anno per la statuetta e solo la quarta nella storia del premio.

La protagonista di Lady Bird, Christine, è irriverente e non allineata rispetto al liceo cattolico che frequenta, potrebbe essere la sorellastra di Margot Tenembaum. Cos’hanno in comune? La maleducazione di apparire forti nonostante tutte le debolezze che nascondono. Queste influenze fanno eco e risuonano, in un’opera che riprende il lessico tipicamente quotidiano e sempre più velocemente parte alla conquista di un territorio musicale necessario.

Greta Gerwig ha fatto la cosa migliore per una regista al primo film, ha iniziato raccontando ciò che conosce meglio: la città dove è cresciuta.

L’intenzione sembra quella di voler scrivere una lettera d’amore a Sacramento, esplorando come il concetto di “casa” si metta davvero a fuoco soltanto quando sfugge. Un’altro filo conduttore del film è il conflitto, che percorre tutta la pellicola, ma trova il suo punto focale nella relazione con la madre. L’essenzialità di questo rapporto non deriva dal fatto che esso rispecchi davvero la figura materna della Gerwig (non abbiamo infatti a che fare con una biopic) ma dall’amore profondo che inevitabilmente si trasforma in scontro tra due persone uguali. Lady Bird, mette al centro la figura di Christine, anche se per tutto il tempo non fa altro che parlarci anche della madre. Christine mette al centro il suo desiderio di voler raggiungere un luogo “intellettualmente stimolante” come New York, anche se rimane inteso l’amore per Sacramento.

Lady Bird è una figura essenziale per riequilibrare la natura dei protagonisti, quasi sempre maschili, dei film coming-of-ageBoyhood, I 400 colpi e Stand by Me solo per citarne alcuni. Ed è ancora più importante perché durante tutto il film non ci facciamo domande sulla sua sfera sentimentale, “Troverà il ragazzo perfetto per lei?”, “Lui troverà lei?” ma riusciamo ad isolarla dalle relazioni che la circondano, per cercare davvero di capire “Riuscirà ad essere sé stessa?”. Percorriamo una strada molto onesta, in cui una ragazza deve imparare a fare affidamento sul suo istinto e non sulle immagini distorte della realtà.

Se riusciamo a distaccarci, almeno in parte, dalla trama specifica e dalla figura della ragazza diciottenne che deve rispondere a tanti interrogativi (l’ultimo anno di liceo, il ballo , il college, le aspettative dei genitori) riusciamo a capire che Lady Bird non tratta di un’età specifica: piuttosto di un sentimento universale e trasversale a tutte le età, cioè il momento in cui capisci chi sei e che in quanto parte di qualcosa scegli di scegliere. È anche questo che distingue il film dal suo più diretto concorrente Chiamami col tuo nome, che invece ci porta a rivivere l’estate in cui abbiamo scoperto la relazione con l’altro.

Chiamami con il tuo nome

Luca Guadagnino è un caso particolare: ci troviamo di fronte a un regista italiano, con un film candidato a ben quattro statuette, sconosciuto agli italiani fino alla candidatura. Questo perché, come dichiarato recentemente dallo stesso Guadagnino in un’intervista, lui per l’Italia non esiste. Non è stato cullato dal suo paese come la giovane Gerwig. L’equivoco che lo riguarda più da vicino è il suo precedente lavoro per Melissa P, ispirato al romanzo 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire di Melissa Panarello — di quest’ultimo infatti perse (purtroppo) il controllo creativo. I film di Guadagnino escono sempre in Italia, ma senza successo, costringendolo alla ricerca di fondi all’estero. Proprio da questa necessità nasce una grande contraddizione: come regista attira fondi al di fuori del contesto nazionale, che però portano ad investimenti proprio su quest’ultimo, girando per il resto del mondo come prodotto italiano.

Luca Guadagnino è innanzitutto un cinefilo che fa film. Indirizza il suo amore e la sua ammirazione su un regista in particolare: Bernardo Bertolucci. Il suo cinema lo citato spesso (infatti definisce Bertolucci on Bertolucci diretto con Walter Fasano il suo lavoro più personale), ma solo in Chiamami col tuo nome esce finalmente lo spirito giovane, ribelle  comune alla protagonista di Io ballo da sola. Solo questo, rappresenta un motivo valido per cui vedere il film: c’è Bertolucci che filtra dallo schermo. Un po’ come ha fatto Greta Gerwig con il cinema indipendente precedente a lei.

Guadagnino non ha però lavorato da solo, partendo infatti dal romanzo di Andrè Aciman si è affidato ad uno dei migliori sceneggiatori contemporanei: James Ivory. È quindi il regista siciliano che porta i sapori della sua terra in un film prettamente americano, dalla patina indie. L’ambientazione è fondamentale. Il pezzetto di Italia del 1983 rappresentato cerca di ricalcare nel modo più fedele possibile l’atmosfera che si respirava in quel periodo: tra l’anno delle elezioni, la figura di Craxi e del pentapartito. Fortunatamente il tema dell’omosessualità è stato facilmente sdoganato, e si è capito subito che il punto focale della pellicola non verteva su quello. Senza il bisogno di eccessivi sforzi, l’universale esperienza del primo rapporto arriva al cuore di tutti. Guadagnino infatti non si accontenta del trasporre in immagini un romanzo, ci dà invece la possibilità in più di immedesimarsi, così da farci diventare i suoi personaggio e rivivere insieme al protagonista i turbamenti che sono stati anche nostri.

Il sodalizio tra attori e regista è stato uno dei più fortunati degli ultimi anni. Nel personaggi di Elio, interpretato da Timothee Chalamet, è stato infuso il senso di urgenza, irrequietezza necessario per non sminuire la scoperta del sesso — di ciò che è nuovo e “proibito” e di tutto ciò che può essere scoperto nella noia di un’estate.

call me by your name

Come Lady Bird è un film incentrato sul protagonista ma che allo stesso tempo parla principalmente del rapporto genitori-figli. Al contrario di Greta Gerwig, Luca Guadagnino vuole applicare la tecnica dell’utopia: rappresentando due genitori impeccabili nel loro intromettersi nella vita del figlio. Diffidando dell’eccessivo realismo, almeno sullo schermo decide di far apparire una famiglia che funzioni da specchio per lo spettatore.

Guadagnino ci ha regalato un’enciclopedia delle più belle e contrastanti sensazioni adolescenziali, per una volta spogliate dal mieloso atteggiamento spesso presente in queste occasioni.

Ci eravamo quindi lasciati nel 2016, con il cinema indipendente che aveva accettato la sfida di rappresentare le minoranze in risposta agli #Oscarsowhite. “You’ve got to decide who you want to be” è una frase che si sente dire il giovane Chiron di Moonlight, sembra che quest’anno sia stato preso alla lettera.

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