Luca Galizia ci ha raccontato il mondo dietro a Generic Animal

Il disco non è cantato bene: è una scelta che non sia stato fatto con l’autotune, ci piaceva che la voce non fosse mai intonata se non nel momento in cui veniva usata come uno strumento.

Luca Galizia ci ha raccontato il mondo dietro a Generic Animal

Qualche sera fa abbiamo dato appuntamento a Luca Galizia al Rainbow a Milano per fare quattro chiacchiere prima del concerto di venerdì 23 febbraio al Circolo Magnolia.

Quello che ne è uscito è un lungo fiume di parole che sia noi che Luca abbiamo fatto fatica ad arginare.

Generic Animal è il nome sia del progetto che del disco di Luca Galizia, membro dei Leute. I testi sono stati interamente scritti da Jacopo Lietti, frontman di uno dei gruppi più underground di Italia — i Fine Before You Came — Luca ne ha ricavato 8 canzoni e Marco Giudici e Adele Nigro (Halfalib e Any Other) lo hanno prodotto e co-arrangiato.

Il disco è uscito lo scorso 18 gennaio per La Tempesta Dischi.

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Come è nato l’incontro con Jacopo Lietti?

Ho conosciuto Jacopo perché il primo disco di Leute è uscito per Legno, il suo studio di grafica. I ragazzi hanno anche una sezione dischi, una piccola ma molto intima collezione. L’ho conosciuto meglio perché poi, come per Generic Animal, ho curato la produzione artistica del disco. È nato tutto dallo studio di Legno: un giorno Jacopo mi ha detto che aveva scritto un testo, me lo ha mandato, ci ho riflettuto, ho scritto una canzone e gliel’ho rimandata. Mi piaceva molto ma non sapevo cosa fosse e allora lo facevo ancora. Cercavo una mia dimensione e non è stato semplice perché ho sempre lavorato in una band. Mi sentivo troppo vulnerabile quindi mi sono chiuso a conchiglia.

Come è stato cantare testi non tuoi? Se il modo di scrivere di Jacopo fosse stato troppo lontano dal tuo mondo lo avresti fatto lo stesso?

Uno dei problemi che mi sono sempre posto, fin da quando scrivevo con Carlo Porrini per Leute, è che se avessimo cantato in italiano probabilmente saremmo sembrati l’ennesima copia dei FBYC. Forse non sarebbe così perché abbiamo una nostra quadra, una nostra idea melodica. Lavorare per Generic Animal con Jacopo e capire di non star scimiottando i FBYC mi ha fatto apprezzare ancora di più il suo modo di scrivere.

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I testi non potevano essere quelli di nessun altro. Si potrebbe pensare che fossero degli scarti, invece hanno proprio una forma per Generic Animal. Tra noi si è creata un’intimità, anche a distanza (all’inizio ci sentivamo ogni giorno solo su whatsapp), tale da garantire che Jacopo si sentisse a suo agio. Ci siamo voluti bene nel farlo, è nato un bromance. Broncio è stata la prima canzone che ho scritto ed infatti è più ripetitiva, quella è stato il gradino da cui sono partito poi per scrivere tutto il resto.

Poi cos’è successo?

Poi è arrivato Juju (Marco Giudici) gli avevo fatto sentire una demo di Broncio e gli piaceva. Ci tenevo a tenere aggiornati lui e Adele. Rispetto alle demo (molto povere), il disco ha preso una piega diversa a livello di arrangiamenti: c’erano sempre i bit, le linee di chitarra sono tutte abbastanza simili ma all’inizio non c’era il pianoforte di Juju, non c’era la voce di Adele, non c’erano delle idee di synth che sono fondamentali per quello che è stato il risultato finale. Adele si è occupata delle voci, quando è arrivata in studio aveva idee molto fresche, è stata fondamentale.

Il disco non è cantato bene, ma lo è per un motivo: è una scelta che non sia stato fatto con l’autotune, ci piaceva che la voce non fosse mai intonata se non nel momento in cui veniva usata come uno strumento. Da lì, non so come, ci siamo trovati a registrare il disco la scorsa estate ed Enrico Molteni l’ha fatto uscire per la Tempesta.
Ho letto che se si fa uscire un disco con Legno lo si fa uscire per un concetto, per un’idea. Come ti sei trovato a lavorare con la Tempesta?

Sì Legno è più un voto. Se ai ragazzi di Legno piace un disco, lo fanno uscire e si sa già che non finirà sulle classifiche perché non interessa vendere. È qualcosa di nicchia e di intimità. Così è andata per Leute. La Tempesta  invece è un’etichetta vera e propria, indipendente, ma è un’etichetta. Anche qui c’è una vocazione, se ad Enrico Molteni piace un artista cerca di seguirlo il più possibile. Con me è stato un amico ma anche un tutor vero e proprio, forse anche perché sono uno dei più giovani dell’etichetta.

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A VOLUME (negozio di dischi all’interno di Santeria Paladini), la presentazione del disco, è andata molto bene…

Io ero preso malissimo! Prima di andare pensavo che se fossero venute 70 persone e sarei stato felice. E invece hanno dovuto chiudere le porte di Santeria, un sacco di gente è rimasta fuori. Da show intimo che pensavo sarebbe stato mi sono ritrovato davanti un muro di persone, non mi sentivo le mani. Ma è stato molto bello vedere che le persone davanti a me, in prima fila, fossero amici che avevano collaborato al disco.

Nel disco ci sono anche altre voci oltre alla tua e quella di Adele.

Sì, ad esempio in Interludio si possono sentire Birthh, MYSS KETA, Juju e Adele che fa il suono di un sax con la voce, un po’ alla Runaway di Kanye West. Anche in Hinterland ci sono i cori di Adele e Birthh.

Con Jacopo invece abbiamo cantato insieme nell’ultimo pezzo, “Qualcuno che è andato,” era molto agitato. Mi ricordo che ha portato in studio una scatola di Bananito (gelato alla banana, a forma di banana) e birra moretti e ne abbiamo mangiati un sacco.

Nei testi si parla spesso della provincia e dello spostarsi. Anche se non l’hai scritto tu, quanto ti rispecchia?

Molto! Penso a Hinterland, è un pezzo scritto quasi per condivisione di idea. Jacopo prende sempre la metro per tornare a casa, io prendo il treno. Lui vive a Milano, io a Castellanza. Mi ricordo che un giorno ero scazzatissimo e stavo correndo con lo zaino e ce l’avevo con la gente che non lascia scendere prima di salire dalla metro, ero proprio Limoncello di Adventure Time: incazzato, in ritardo, e avevo perso il treno; proprio in quel momento Jacopo mi manda un messaggio dicendomi che voleva scrivere un pezzo ma non sapeva su cosa. Io gli ho detto di scrivere su questo. E così in Hinterland si parla di un viaggio.

E in Alle fontanelle?

Lì è più complicato, sembra che si parli della provincia e invece no: sono cose più intime di Jacopo. Ammetto però che anche qui c’è un rimando all’idea del doversi spostare: è una rottura di palle ma bisogna conviverci.

Ma stai già scrivendo nuove canzoni? Riesci a farlo mentre sei in tour?

Sì e sono molto contento perché ho deciso di dedicarmi alla musica a tempo pieno. Insieme a Carlo Zollo, che cura anche tutti gli aspetti del live, sto scrivendo nuovi pezzi, molto diversi da quelli di questo disco. Appena qualcosa mi piace cerco di registrare subito, senza pensarci troppo.

Sei così anche nella vita? Ti godi quello che succede senza paranoie?

Oddio non saprei, non lo so se mi va di dire che sono un preso male perché in realtà non è vero. Penso di essere una persona morbida, mi piace stare bene, non sono contro la caciara, sono pro entusiasmo anche se è difficile arrivarci. Quando ci sono cose belle e sincere, mi ci butto. Sono anche un po’ impulsivo.

Il video di tsunami mi è piaciuto, com’è andata?

Ti è piaciuto? Quello è stato un grande esperimento, avevo paura di sembrare uno scemo. Alla fine quando sei al centro di un video e non sei un figo – non sono un frontman, non sono rock, non sono un gallo – non è facile. Inoltre la canzone è triste.  Tutti mi dicevano di stare tranquillo perchè c’erano location bellissime: c’era il mare, la montagna, era autunno. A me piacciono, so che è un paragone un po’ azzardato, i video di Yung Lean, sono pazzeschi, quasi dei piccoli film. Nel mio video si parte da una spiaggia e poi si arriva ad una casa perché la canzone parla di ritornare, probabilmente non è immediato ma non avevamo l’esigenza che ci fosse uno soggetto vero e proprio. Yung Lean ha sia la location bomba che una storia vera. Poi Andrea, la mia morosa, ha curato tutto lo styling che è stato un elemento portante del video.

Assolutamente! Sei vestito benissimo!

Già, ti immagini se fossi stato vestito tutto di nero, sarebbe stato tristissimo. Infatti abbiamo optato per il completo tutto giallo. Abbiamo curato molto il look, mi sono cambiato molti abiti, restando in mutande, al freddo.

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Cambiando argomento, o forse no, disegni ancora?

È un periodo in cui faccio fatica a mettermi d’impegno, soffro un po’ quando certe cose vengono strumentalizzate, quando tutti ne hanno accesso. Se è un mio disco ha come copertina un mio disegno, tutti lo possono prendere, tutti possono dire quello che vogliono, trattarlo come vogliono. Sto disegnando più per me stesso perché ultimamente mi sono sentito un po’ forzato a farlo nella dimensione Generic Animal. Frequentare l’Accademia di Brera mi ha aiutato a collocare e capire quello che stavo facendo, ma non voglio strafare: non sono un accademico, non so fare la copia dal vero ma ho il mio pensiero.

Quando ho iniziato coi disegni ero più legato a un trip emoranger (termine che riferisco a una brutta sensazione, una brutta creatura), facevo cose per pubblicare su Instagram. Non avevano nessun altro scopo che essere lì e di essere perdute col tempo. È proprio lì che è nato il disegno dell’animaletto generico che ha dato il nome al progetto. Insomma mi manca fare tutto un po’ a caso, ma forse non dovrei lamentarmi visto che ho appena iniziato.

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