Euro sì o no? Il dilemma della sinistra in Europa
La querelle tra PG e Syriza è il sintomo di un interrogativo più ampio che assilla silenziosamente le anime della sinistra del Vecchio Continente: Unione europea sì, o Unione europea no?
“ Per il Partie de Gauche (PG) e, indubbiamente, per altri partiti della Sinistra europea, è diventato impossibile venire associati allo stesso movimento di Syriza […] .” È questo il verdetto che il Partie de Gauche di Jean Luc Mélènchon ha emesso, attraverso un comunicato, sul proprio sito web.
Il PG ha di fatto chiesto l’espulsione del Partito greco dalla federazione comunitaria dei partiti della sinistra. Perché?
Nel comunicato si legge che il PG esprime il proprio “dispiacere” in relazione alla promozione, da parte di Tsipras, della logica dell’austerità al punto da restringere il diritto di sciopero, “sottomettendosi agli ordini della Commissione europea” (CE). La risposta di Syriza si è fatta tweet: la richiesta di Mélènchon sarebbe “anti-democratica, provocatoria e divisiva.”
La querelle tra PG e Syriza è il sintomo di un interrogativo più ampio che assilla silenziosamente le anime della sinistra del Vecchio Continente: Unione europea sì, o Unione europea no?
Questo è il problema
Per una parte sempre più significativa della classe dirigente della sinistra, il processo di integrazione si sta trasformando da “causa comune” in argomento controverso, se non divisorio.
Non importa dove si vada all’interno dei Paesi cosiddetti centrali dell’Ue e dell’Eurozona: ovunque, si ha la sensazione che i partiti della sinistra “radicale” stiano quantomeno “affrontando” un dibattito interno, sull’opportunità di rimanere nell’Eurozona — se non, nell’Unione europea tout court.
In Germania, Sahra Wagenknecht della Die Linke si è espressa in modo ambiguo sull’Ue nel recente passato. Nel 2013, con riferimento alla compressione dei salari nel Paese, Wagenknecht ha detto: “Su i salari, o fuori dall’Euro” (Lohne rauf, oder aus dem Euro raus”, Saarbrucker Zeitung). L’anno scorso, parlando del Belpaese, ha usato parole simili: “O si riforma l’Eurozona, oppure l’Italia sarà costretta a uscire dall’area valutaria comune” (Die Zeit).
In Francia, i dirigenti del movimento La France Insoumise hanno lanciato messaggi altrettanto forti. Nel 2016, Mélènchon ha fatto capire che, qualora fosse costretto a scegliere tra sovranità ed Euro, opterebbe per la prima. Senza contare poi che, nel 2017, ai microfoni di Radio 1, il leader di PG ha proposto un “referendum sull’Euro” (video), nel caso in cui non si modifichi la missione della Banca centrale europea.
Ma la lista degli episodi/dichiarazioni va al di là dell’asse Berlino-Parigi. In Italia per esempio, all’interno di Sinistra Italiana — partito confluito nel progetto di coalizione di Liberi e Uguali — Stefano Fassina, economista ex-Pd, ha sferrato attacchi robusti contro l’Eurozona, scrivendo apertamente della necessità di “superare l’Euro.” E anche nelle file di Potere al Popolo, esistono posizioni radicali come quella di Eurostop (si veda l’intervista con Giorgio Cremaschi su ilSalto). Infine, c’è Senso Comune (SC), un movimento associativo-politico che si sta radicando sul territorio italiano, e che rivendica un’uscita dall’Euro, se non, addirittura dall’Ue ( si legga l’editoriale di Thomas Fazi — co-fondatore di SC — su Social Europe). Capitolo a parte per la Spagna, dove Podemos ha sempre taciuto, in maniera ambigua, la propria posizione sull’Europa e sulla moneta unica: l’ordine è la patria sovrana. O, per dirla ancora con Errejon, “un partito di sinistra che non rivendica l’identità nazionale” sarebbe “inutile.”
Una tragedia europea
D’accordo, ma cosa c’entra tutto questo con Tsipras e la Grecia? Molto.
La gestione della crisi ellenica del 2015 da parte delle istituzioni europee, nonché la la condotta di Syriza in seguito, hanno rappresentato, agli occhi della sinistra del Vecchio Continente, uno spartiacque, un trauma ben più importante rispetto alla crisi finanziaria del 2007-2008.
Quest’ultima è originata negli Stati Uniti ed è stata causata dai mercati. La prima invece, è nata in Europa ed è stata “rafforzata” — questa l’interpretazione della sinistra radicale — da un consesso di “attori” istituzionali (chiamatela Troika, se volete) e partitici. Molti di quest’ultimi sono i partiti della socialdemocrazia europea e, per l’appunto, Syriza: Alexis Tsipras è il prescelto che non compie la sua missione storica e che tradisce la volontà popolare.
Da un punto di vista più generale, gli eventi di Atene avrebbero illuminato uno “stato di fatto:” quello di un’Unione piegata agli interessi di un’area politica ed economica precisa — quella liberale — e, punto importante, difficilmente modificabile. Per dirla con Fassina, oggigiorno non vi sarebbero “le condizioni politiche per orientare l’euro in senso pro-labour.” Anche perché “il mercantilismo tedesco ha radici profonde”— Sostiene l’ex-PD.
La versione di Varoufakis
Tra la socialdemocrazia dello status quo e la sinistra radicale affascinata da un’uscita dall’Unione, esiste poi la “versione di Varoufakis”. Proprio dalla debacle ateniese, il ministro delle Finanze greco è risorto con il suo movimento paneuropeo Diem25, (Democracy in Europe Movement 2025), una rete internazionale di attivisti che credono nel rilancio del progetto Ue e che si candiderà alle elezioni del Parlamento europeo del 2019.
Secondo Varoufakis, l’Unione si può e deve cambiare “da dentro”, tramite vincoli di “trasparenza e democraticità” da applicare alle procedure decisionali di organi quali il Consiglio europeo e l’Eurogruppo. Chi altro rientra in questa area? Benoit Hamon, l’ex-candidato del Partito socialista (PS) francese alle elezioni presidenziali del 2017 (e ora guida di un nuovo movimento progressista indipendente dal PS, Génération-s), nonché la star dell’economia alternativa, Thomas Piketty. Una critica alla strategia politica di Varoufakis è arrivata però per mano di Jonathan Shafi, sulle pagine del The Independent. Secondo Shafi, non potrebbe esistere un’opzione marxista nel quadro dell’Ue. Varoufakis sarebbe, quantomeno, naive quando dice che “è necessario salvare l’Ue da se stessa” (qui lo scambio di tweet tra Varoufakis e Shafi).
In ogni caso, l’ipotesi dell’ex ministro delle Finanze greco rappresenta, all’interno della bolla della sinistra europea, il contrappeso alle frange dell’exit. Eppure, a ben vedere però, entrambe le aree chiedono una modifica dei trattati comunitari. Quindi?
Le differenze sono sottili, eppure sostanziali. Varoufakis e Hamon credono che una modifica dei trattati comunitari sia necessaria, ma nel medio periodo. Nel frattempo – e attraverso le già menzionate infusioni di trasparenza e democratizzazione – sarebbe possibile dare un tratto più sociale a questa Unione. Per i vari Mélènchon-Fassina invece no: la modifica dei trattati serve subito. Altrimenti? Ci deve essere un “piano B”, quello dell’uscita dall’Euro, dell’istituzione di un sistema coordinato di valute nazionali e un’unità di conto comune. Sono già esistite in passato e si chiamavano rispettivamente “serpente monetario” ed “Ecu” (European currency unit). La storia si ripeterà? Difficile dirlo. Ma è probabile che, da qui alle elezioni del Parlamento europeo del 2019, nella sinistra europea, la spaccatura sull’Unione si allargherà e metterà un’intera classe dirigente di fronte a una scelta scomoda: Unione sì, o Unione no?