Articolo a cura di Free2Change
Nel 2015, 6,5 milioni di persone sono morte prematuramente a causa dell’inquinamento dell’aria.
Se contiamo anche le altre forme di inquinamento, arriviamo a 9 milioni di persone: tre volte i decessi causati da AIDS, malaria e tubercolosi messi insieme, quindici volte quelli provocati da tutte le guerre e le altre forme di violenza; questo ci dice il rapporto della commissione di Lancet su inquinamento e salute, pubblicato nell’autunno 2017.
Questi numeri non piovono dal cielo, ma sono frutto di un’analisi complessa: non è facile stabilire con certezza i legami tra inquinanti ed effetti sulla salute delle persone, motivo per cui nello studio Global Burden of Pollution (su cui si basa il lavoro della commissione) sono conteggiate solo le morti attribuibili a sostanze note, per le quali questo legame è stato ben definito (polveri sottili, ozono, ossidi di azoto, ossidi di zolfo, piombo, e via dicendo). A quei 9 milioni di morti dovremmo sommare le vittime di inquinanti conosciuti ma i cui effetti non sono ancora completamente accertati, e i decessi causati da sostanze relativamente nuove, della cui pericolosità si comincia appena a parlare.
Uno dei punti cruciali è che i fattori di rischio cambiano a seconda del reddito: inquinamento dell’aria domestica, avvelenamento dell’acqua alla fonte e igiene inadeguata sono tipicamente associati a una povertà profonda nei Paesi a reddito basso e medio-basso, mentre in quelli a reddito medio-alto e alto i rischi maggiori derivano dallo sviluppo industriale. Le emissioni di fabbriche e mezzi di trasporto si traducono in particolato fine e ozono troposferico (non quello che costituisce l’ozonosfera, il cui assottigliamento è noto come buco dell’ozono), le lavorazioni industriali possono provocare esposizione ad agenti chimici tossici ed inquinamento del suolo da metalli pesanti, come il piombo.
Nel complesso, l’origine e la natura degli agenti inquinanti cambiano con lo sviluppo industriale ed economico. Il 92% della mortalità si verifica in Paesi a basso e medio reddito; l’incidenza maggiore è in Asia, Africa e Est Europa.
Qui in Occidente ci preoccupiamo molto dell’inquinamento, specie di quello dell’aria: ad esempio, è uscito lo scorso 25 gennaio il rapporto Mal’Aria 2018, dal titolo “L’Europa chiama, l’Italia risponde?”. Il documento, redatto da Legambiente sulla base dei dati raccolti dalle stazioni di monitoraggio urbane, è una condanna senza appello: nel 2017 in 39 capoluoghi di provincia italiani è stato sforato, almeno in una stazione, il tetto annuale per le polveri sottili, fissato ad un massimo di 35 giorni con una media giornaliera superiore a 50 microgrammi per metro cubo.
Particolarmente grave la situazione a Torino sopra il limite 112 giorni nel 2017, seguono Cremona e Alessandria, mentre Milano è settima con 97 giornate.
Anche sul fronte dell’ozono le cose vanno piuttosto male: 44 città hanno oltrepassato i valori limite per più di 25 giorni l’anno.
In realtà questi dati non sorprendono: l’Italia ha due procedure di infrazione aperte per il mancato rispetto dei limiti su polveri sottili e ossidi di azoto negli anni passati, ed è al primo posto in Europa per morti premature dovute a inquinamento atmosferico, con 60000 casi all’anno secondo l’Agenzia Ambientale Europea.
Ma 60.000 casi, per quanto siano sempre troppi, sono meno dell’un per cento dei 6.5 milioni di decessi annui a livello globale attribuibili al solo inquinamento dell’aria, una goccia nel mare.
Il punto è che nel cosiddetto “primo mondo” abbiamo a disposizione moltissimi strumenti, sia tecnologici sia legislativi, che ci permettono di limitare drasticamente i danni alla nostra salute. Questi strumenti sono stati sviluppati col tempo, sia perché capita che gli inquinanti non siano immediatamente riconoscibili come tali, sia perché soluzioni volte a limitare la produzione di sostanze chimiche indesiderate sono spesso avversate per paura di incorrere in perdite economiche, dovute anche a un calo di competitività nei confronti dei concorrenti che non le adottino.
Il rapporto fornisce diversi elementi per smentire la fondatezza della seconda obiezione: prima di tutto, l’inquinamento determina perdite economiche di per sé, sia a causa dei cali di produttività dovuti a malattie e morti premature (stimati in 53 miliardi di dollari nel solo 2015 per i Paesi a reddito alto e medio-alto), sia per i costi sul sistema sanitario, che nel caso di Stati ad alto reddito si attestano sul 3.5% del totale (complessivamente 100 miliardi di dollari). Al netto dei costi, introdurre regolamenti, leggi e misure restrittive per ridurre l’inquinamento può invece comportare effetti positivi sull’economia.
Naturalmente, fermarsi a un’analisi in termini monetari esclude da ogni valutazione il benessere degli individui: documentari come questo su Agbobloshie, una delle più grandi discariche di rifiuti elettronici al mondo situata in Ghana, mettono a nudo il legame malsano tra povertà e inquinamento. In modo particolare nei Paesi a basso reddito, le persone indigenti sono costrette a vivere e lavorare in ambienti che le fanno ammalare, e a dipendere da strette reti sociali per la propria sopravvivenza, il che restringe ulteriormente la loro mobilità. Senza alcun potere contrattuale, non hanno la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita; in questi luoghi la povertà è molte volte una trappola che si estende per generazioni.
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