Turismo di guerra nei Balcani: storia di una polveriera diventata souvenir
Quella che fu – e continua a essere – la polveriera preferita dal giornalismo italiano attira di anno in anno un crescente esercito di turisti e viaggiatori.
in copertina: L’abitazione che ospita il Museo del Tunnel di Sarajevo. Tutte le foto dell’autore
Quella che fu – e continua a essere – la polveriera preferita dal giornalismo italiano attira di anno in anno un crescente esercito di turisti e viaggiatori, ispirati dalla narrazione di un territorio che mischia esotismo pret à porter, fascino post-bellico e la comodità di pagare la benzina un euro.
Sul ciottolato bianco e scivoloso dello Stari Most, lo sciabattare turistico parla diverse lingue: turco, pugliese, tedesco, napoletano, inglese, veneto. Per le vie di Mostar, capitale dell’Erzegovina, orde di pellegrini attirati dalla vicina Medjugorje, passeggiano a fianco di famiglie provenienti da Turchia, Iran, Medio Oriente e penisola arabica, incrociando gli sguardi incuriositi di backpackers tedeschi o francesi armati di espadrillas e borse di juta.
Quei luoghi tanto esotici quanto prossimi, che un tempo parevano essere esclusivo appannaggio di fotoreporter d’assalto, da qualche anno hanno cambiato volto. Non compaiono più esclusivamente sulle pagine della cronaca nera o degli esteri, ma anche su quelle delle Lonely Planet. Gli eserciti di militari e ONG si affiancano a quello dei giovani turisti esploratori del Balcano terra multietnica, multiculturale, multisfaccettata. Nella sola Bosnia Erzegovina, l’incremento è stato impressionante: se nell’agosto 2010 si contavano poco più di 60.000 turisti, sette anni dopo erano aumentati di almeno 100.000 unità.
Un nuovo flusso turistico ha presto valicato i confini delle classiche mete balneari croate, per esplorare gli angoli più oscuri degli stati nati nati dalla dissoluzione dell’ex-Jugoslavia. Dubrovnik, le Bocche di Kotor, i laghi di Plitivice, ma anche Sarajevo, il festival di Guča tra le montagne della Serbia e i monasteri del lago di Ohrid, in Macedonia.
I curiosi viaggiatori vi accedono per diverse ragioni: paesaggi instagrammifici, chiazze di autenticità dai toni esotici, scenari post-bellici estinti, moda, prezzi molto accessibili. A guardarsi in giro tra le persone che si guardano in giro, sembra che i Balcani riescano proprio a rispondere a quella richiesta di autenticità che ci si aspetterebbe da un luogo che, sempre narrato con toni immaginifici e speziati, dovrebbe essere uno scrigno di esotismo. Soprattutto perché qua, quantomeno sulla carta, culture e religioni si mescolano.
È forse per questo motivo che – a Mostar come a Sarajevo, giusto per prendere due delle destinazioni più celebri – parte la spasmodica caccia alla sventagliata di mitra su parete di casa, alla rovina bombardata.
Il dark tourism chiama in causa più dimensioni contraddittorie. Sarebbe sciocco celare le differenze, il passato tumultuoso, sarebbe ingiusto tentare di nascondere dietro un dito le ferite ancora visibili degli scontri, delle guerre e riporle nel cassetto del passato scomodo. La conseguenza, però, di una spettacolarizzazione che a volte diventa mercificazione di questi segni del passato prossimo, può essere controproducente, pericolosa, per diversi motivi.
Per fare un esempio, a Mostar, nello splendente ed infiocchettato centro medievale specchiato sulla Neretva e all’ombra dei minareti, si vedono banchetti vendere penne ricavate da bossoli di kalashnikov ed elicotteri-giocattolo costruiti con delle granate.
Il prodotto guerra vende: difficile trovare i numeri ufficiali del fenomeno, ma il solo fatto che esista è rappresentativo. A Sarajevo numerose guide organizzano tour guidati sui luoghi della guerra, con le testimonianze di chi visse i tre anni di assedio. Per i più temerari, c’è anche il Sarajevo War Hostel, una struttura che offre camere con muri bucherellati e kalashnikov al posto dei quadri, sacchetti di viveri firmati UNHCR e un mixage di bossoli d’ogni forma e dimensione, per provare l’ebbrezza di vivere una notte d’assedio. Ugualmente di successo, i tour mordi e fuggi per Srebrenica – cittadina teatro del celebre genocidio – con il pacchetto “Srebrenica Genocide (Never Forget July 11th 1995)”.
Il turismo di guerra però, non è solo una mera caratteristica bosniaca: anche la rinata città di Vukovar, costruita sul punto in cui il Danubio segna il confine tra Croazia e Serbia, offre ai suoi visitatori un tour “Sulle tracce dei difensori di Vukovar”, attraverso i luoghi che furono simbolo di un urbicidio vero e proprio. Rimane invece più contenuto il dark tourism in Serbia o Kosovo, dove i tour a caccia di rovine e mausolei improvvisati per ora rimangono appannaggio di pochi singoli visitatori.
Non esiste, probabilmente, un modo univoco di trattare il proprio passato, le esperienze personali vissute: per molte persone è ancora impossibile trattare l’argomento, altre scelgono di utilizzarlo per monetizzare, a fronte di una situazione economica non delle migliori (la Bosnia è il paese con il più alto tasso di disoccupazione giovanile d’Europa, 62%).
Noi forestieri, si torna a casa un po’ arricchiti da un’esperienza in cui si annusa l’odore della guerra senza sentirne la puzza, provando un brivido appagante per aver “osato” a scoperchiare un vaso di Pandora di cui avevamo solo sentito parlare distrattamente nelle brevi che scorrono sotto al TG2.
Capita anche di tornare a casa avendo l’impressione di aver capito, compreso quel luogo, proclamando un vinto e un vincitore, una vittima e un carnefice.
Ci si ritrova quindi a vedere tutto o quasi seguendo un “prima” e un “dopo” la guerra, nel paesaggio urbano e negli incontri con le persone che quel luogo lo vivono, rimanendo delusi quando i nostri interlocutori ci parlano – manco a dirlo – di una loro quotidianità, di una normalità, che non di sola guerra è fatta.
Chi scrive non si sente un primus inter pares come potrebbe sembrare, vuole anzi palesare con malcelato imbarazzo quelle frizioni emotive provate di ritorno dai viaggi balcanici. Raramente raccontata, esiste una “normalità” in luoghi che non sono abbastanza lontani per essere manifestamente esotici, e al contempo non sono abbastanza prossimi per rientrare nella cerchia degli europei, quelli con la bandiera blu e le stelle gialle.
A volte però non ci si rende conto che quei fori di proiettile che andiamo a cercare nelle periferie di Sarajevo, non fanno che cementare ulteriormente quell’immagine di città, di comunità, di Balcani che ci siamo costruiti sul divano di casa prima di partire. A pagarne le spese è proprio il luogo che scopriamo affascinante e percepiamo lontano, ricadendo dentro quei clichés sulla sua popolazione “geneticamente predisposta” allo scontro, all’aggressività e alla guerra.