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L’itpop è indie? È un prodotto pop? È musica mainstream? Cosa differenzia gli artisti della nuova corrente musicale da quelli venuti prima di loro?

Una volta era musica alternativa, diventata indie rock nei primi duemila, poi solo indie e ora in qualche modo si è iniziato a parlare di itpop. Una definizione di genere che, indipendentemente dalle sue origini, mi piace, devo ammetterlo. Definisce un genere nato come alternativo, dove l’alternativa di solito è proprio un’alternativa al pop, per antonomasia mainstream. Lo fa ritrovando un’identità comune a prescindere dalla musica, dal contesto culturale che la circonda — come fu a metà anni Novanta per il brit–pop ed è oggi per tantissimi altre “scene” musicali pop, dall’afro–pop al k–pop.

Rispetto alla direzione verso cui era impostato il dibattito attorno alla musica “alternativa” italiana delle scorse decadi, è un cortocircuito.

Per prima cosa perché ci impone delle riflessioni: pop e mainstream non sono più necessariamente la stessa cosa,e in ogni caso essere pop non è più un male assoluto. Chi sta scrivendo ha sempre ritenuto il pop un genere decisamente interessante, ricco di sfumature e troppo bistrattato. Per definizione, il pop (abbreviazione di popular, da cui in qualche modo deriva, la popular music) è musica per le masse. Quindi pop e mainstream sono sinonimi.

Con una differenza. I Radiohead che vendono milioni di dischi sono mainstream? Direi di no. Ma sono pop? Forse sì. Il cortocircuito si ripete.

Bisogna quindi capire come fare musica ascoltata da un bacino di pubblico elevato sia finalmente accettato. C’è una specifica doverosa da fare: tra accettare che la propria musica, il proprio genere, sia apprezzato da un pubblico vasto e accettare che un pubblico, ovvero un target, differente dal proprio apprezzi lo stesso artista preferito, la strada è lunga. Il grande caso della kermesse sanremese per farla breve. Quando un gruppo alternativo finisce sul palco dell’Ariston diventa automaticamente “venduto.” Questo non tanto per la volontà di espandere il proprio pubblico ma quanto per la tipologia di pubblico che questa “raccolta a strascico” si portava con sé.

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In parte questo fenomeno è stato superato e in parte no. La trap ne è un esempio importante. Non a caso questo genere viene indicato come nuovo punk o, in maniera più appropriata, nuovo grunge. È un genere che nasce sovvertendo alcune regole non scritte del proprio genere di appartenenza, il rap. Un genere contro, di reazione, proprio come il grunge lo fu nei primi ’90. Semplificando il glam e tutto il rock and roll complicato e “pettinato,” più semplice da suonare, alla portata di tutti e senza alcuna regola imposta dall’alto.

Così la trap esce dal ghetto e diventa un nuovo genere alternativo, raccoglie ascoltatori dove prima era impensabile.

Coez non fa trap, forse non fa neanche rap. O meglio, rappa in un modo diverso, senza inventarsi nulla. Non è un cantautore tradizionale. Fa quello che ad esempio facevano i Sottotono negli anni Novanta. Solo che all’epoca mischiare un genere puro come il rap era un crimine. Lo era forse anche per i primi dischi di Coez che infatti hanno raccolto un successo decisamente minore rispetto all’ultimo.

L’evoluzione della trap riesce a spiegare come un genere indipendente sia in realtà estremamente dipendente da se stesso. Si è creato un bacino di utenza assetata di nuove band, nuove canzoni, che fa meno caso ai generi, ai suoni, alle restrizioni e ai confini ma che allo stesso tempo è chiuso su se stesso.

Conseguente il discorso delle commistioni di pubblico e da qui le incazzature sui prezzi dei biglietti. Se pagavo per il live di un artista 8 euro fino ad un anno fa perché ora devo accettare di pagarne 26? Perché l’artista in questione ha travalicato il genere e ora piace anche alla casalinga di Voghera e questo, anche se non lo si ammette,  fa incazzare perché si è rotto un patto. Noi, possiamo essere tantissimi ma siamo e rimarremo sempre noi, diversi da voi.

Cos’è però che definisce un genere se all’interno di questo “noi” ci possono stare Coez, Carl BravexFranco 126, Calcutta e i Cani? Artisti lontani che fanno musica estremamente diversa tra loro, per suoni e riferimenti, anche se nessuno sembra accorgersene. La risposta è: i testi.

Ad accomunare tutta la scena itpop sono proprio i testi. Levante canta “che vita di merda,” Calcutta può fare la rima “YouPorn, Campi Rom” o iniziare un ritornello con “Uè deficiente,”  Contessa usa termini come “ Sono solo stanca, zio” mentre i Carl BravexFranco126 mettono in musica, non a caso, polaroid di vita vissuta una vicino l’altra. E così via discorrendo. Sì è completamente sdoganato il linguaggio quotidiano, quello di Whatsapp e di Facebook. Se in una canzone c’è una frase che potrebbe tranquillamente essere il tuo status di Facebook allora quella canzone probabilmente avrà successo.

Furbizia o no, dietro a tutto questo c’è un’urgenza di prossimità, cioè di abbattere le distanze tra artista e ascoltatore e quindi una volontà di ascoltare qualcosa in cui potersi immedesimare subito.

Non è un concetto originale: Dalla e Battisti riempivano le loro canzoni di (poetica, certo,) quotidianità. Dalla soprattutto ha sdoganato nella musica d’autore italiana certi termini spinti e, a volte, volgari.

Poi cos’è successo? Sono arrivati gli anni ’90 e la musica alternativa doveva rispondere a tutto questo. Doveva fare cultura e usare un linguaggio difficile, per differenziarsi. Basta analizzare i testi dei Marlene Kuntz o dei Subsonica, di Carmen Consoli o dei Bluvertigo.

I Subsonica stessi, esempio strano, descrivono nei loro primi dischi un momento storico importante della loro città, e non solo. Un disco come “Microchip emozionale” è a tutti gli effetti (non a caso) un manifesto generazionale. Lo fanno però in maniera filtrata e non a caso un poeta, Luca Ragagnin, è spesso il loro complice di parole. Per questo è sbagliato indicare come precursori dell’indie italiano di oggi band come gli Offlaga Disco Pax, Amor Fou o Baustelle.

La rivoluzione arriva con il “Il sorprendente album d’esordio de I Cani” e non a caso esplode una bomba. I brani dell’album usano termini inconcepibili per una canzone, sembrano non starci, forzati, ma invece sono perfetti. Seguono così le “mani sul culo”, “Papa Francesco e il Frosinone in Seria A” e una lunga lunghissima sequenza di artisti che si riappropriano dell’oggi, del quotidiano. Chi l’ha capito riempie i palazzetti. E non c’è nulla di nuovo, è solo la storia che si ripete.

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