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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.

L’intervista che ho fatto a Giorgio Bianchi è di qualche mese fa, organizzata di tutta fretta e senza il tempo necessario per preparare come si dovrebbe una intervista. Ero appena stato al Festival della Fotografia Etica di Lodi dove Giorgio, con il lavoro che presentiamo, Donbass Stories, aveva ricevuto lo Spotlight Award. In quella occasione, come in tutti quegli eventi che richiedono tempi troppo lunghi di concentrazione, non mi ero soffermato particolarmente su questo lavoro; ricordo che il primo pensiero era stato qualcosa come “guerra, guerra, guerra, sempre guerra!”. Mi ero fermato in superficie, lo devo ammettere: i toni (sì, i colori intendo) e il genere non erano riusciti ad attrarre il mio gusto personale. Giorgio, sempre restando all’interno del mio percorso e gusto personali, occupava una sala che si poteva raggiungere solo dopo aver attraversato il salone dove era esposta la mostra del vincitore del Master Award, Daniel Berehulak – They Are Slaughtering Us Like Animals, un lavoro per cui inspiegabilmente ho sempre provato una grande fascinazione.

Ma Giorgio alla fine è arrivato, e io allora come adesso, ho dovuto abbandonare ogni riflessione o personale considerazione per affrontarlo. Le interviste possono essere momenti puramente descrittivi, in cui ognuno rispetta il ruolo che ha in quel momento, intervistato e intervistatore; possono essere momenti di sopraffazione nei confronti dell’altro. Possono essere anche, come spero potrete leggere, un momento in cui da conoscenti si diventa amici — anche solo per il tempo dell’intervista—diventata—chiacchierata, si demoliscono i ruoli e rimangono le persone che hanno semplicemente voglia di scambiare parole.

Giorgio mi ha fatto apprezzare quello che fa, non semplicemente come lo fa. È così che sono tornato a guardare le foto una volta ancora, con una diversa consapevolezza: non ho più fatto caso ai toni ma ho immaginato un fotografo che si aggirava per corridoi, teatri, strade, case abbandonate, ruderi.

Donbass Stories è un insieme di piccole storie. Questo lavoro è stato impostato in questo modo da subito o è stato l’evolversi degli eventi che ti ha portato a fare questa scelta?

Ho iniziato a seguire la questione Ucraina a partire dagli scontri di Maidan, che, visti dalla televisione o dalle fotografie trasmesse erano pazzeschi, sembravano scenografie holliwoodiane; gomme bruciate, persone con maschere antigas, guerriglia urbana. Visivamente, sebbene sia brutto da dire, era affascinante. Come fotografo mi sono sentito in dovere di andarci o meglio, ho pensato che lì ci fosse qualcosa di importante e che fotograficamente sarebbe stato rilevante.

La rivolta di Maidan è un po’ paradigmatica di tutta una serie di eventi: le primavere arabe, le cosiddette rivoluzioni colorate, cose che io avevo sempre visto da fuori e che volevo capire meglio, vivendole. Andare lì è stato per me una sorta di laboratorio a cielo aperto per capire come si svolgono questi eventi.

All’inizio si è trattata di una esperienza forte, coinvolgente. Fortuna vuole che già alcune delle prime fotografie ricevettero un discreto successo, con cui ho vinto un premio internazionale: le prime soddisfazioni attorno a questo lavoro.

È stato in quel momento che tra me e me ho pensato “va bene, continuo a seguire quello che succede.” Quello che avevo seguito sino a quel momento era successo a cavallo tra il 2013 e il 2014, da quel momento in poi naturalmente ho seguito lo scoppio e l’evolversi della guerra. In effetti subito l’anno successivo, quando sono tornato, si era passati da quella che possiamo chiamare rivoluzione, ad una guerra civile, con l’intento di seguirne entrambi i fronti.

Come è stato il tuo viaggio fino alle zone di combattimento?

Una volta arrivato in Ucraina mi sono accreditato, mi hanno rilasciato la tessera ATO, grazie alla quale mi sono potuto recare in alcune zone di guerra, sebbene non fossero di mio interesse e ancora distanti al fronte.

Decisi così di prendere un autobus per cambiare area, trovandomi in una situazione del tutto diversa. Tutto era in mano ai miliziani, sebbene questo per me ha significato maglie più larghe; è stato molto più facile penetrare nei varchi lasciati aperti dalla burocrazia e arrivare nelle zone di mio interesse a quel punto.

Ci sei andato in autonomia?

In completa autonomia. Il primo giorno ricordo di aver fatto una semplice passeggiata, in direzione aeroporto, avevo sentito che lì si stava combattendo. È così che ho conosciuto dei miliziani. Dopo una giornata passata al loro fianco mi hanno portato in prima linea. È avvenuto tutto in maniera naturale.

Nei giorni seguenti sono andato a seguire una battaglia combattuta con le modalità della Seconda Guerra Mondiale: carri armati, neve, sembrava l’assedio di Stalingrado. Si era creata una sacca dove l’esercito governativo era stato circondato dai separatisti. Questa lunga premessa sulla logistica e le prime intenzioni è per dire che inizialmente mi sono occupato di news.

Come è cambiato il tuo percorso, i tuoi viaggi e dunque il progetto a partire da questo momento ?

Mi sono reso conto che per quanto le foto potessero essere belle, per quanto tu potessi essere dentro quello che stava succedendo le news, per un fotografo freelance e indipendente come me, non riescono a far emergere il mare magno dell’informazione che proviene dalle grandi agenzie e dai grandi media mainstream. Come si dice: non c’è partita.

Da solo puoi anche riuscire a vendere qualche fotografia alla carta stampata o ai giornali sul web, puoi pensare di proporti per un concorso, però quel tipo di storie che tu stai raccogliendo e vivendo vengono affogate da tutta un altro tipo di informazione.

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Come è andato avanti il tuo lavoro, preso coscienza di questa, possiamo chiamarla in questo caso, difficoltà?

Trascorso il 2015 sono tornato anche nel 2016, restando sempre in prima linea e continuando comunque ad occuparmi di news. Ho assistito a diversi bombardamenti, uno l’ho documentato in prima persona. Anche in questo caso è stato difficile riuscire a far passare questa notizia, ma la motivazione questa volta era diversa: non è emersa questa storia perché già non se ne parlava più di questa guerra, e quei pochi che ne hanno parlato lo hanno fatto utilizzando le grandi agenzie.

È in questi momenti che inizi a chiederti come puoi trovare un varco per fare arrivare il tuo lavoro al pubblico. Il primo grande vantaggio è il tempo che vuoi impegnare per raccontare una storia, da freelance puoi decidere liberamente: sicuramente la velocità con cui lavora un fotografo di agenzie è notevolmente più rapido. Avendo più tempo, di conseguenza, hai la possibilità di tornarci più volte in un posto, riesci a crearti i contatti, hai il tempo per conoscere bene le persone: tutto questo, a lungo andare, ha un valore enorme. È un valore enorme che i media contemporanei, quelli mainstream, non si possono permettere.

Hai voglia di spiegare meglio?

Il fotografo freelance bisogna immaginarlo come una persona che fa di tutto e di più, nel senso che fai anche altri tipi di lavoro, seppur in ambito fotografico, che ti permettono di finanziare i tuoi progetti personali, sfruttando i contatti che nel tempo ti crei.

Personalmente ho deciso proprio di investire sul patrimonio di contatti che avevo, cercando di sviluppare e raccontare storie di singoli personaggi. All’inizio ho pensato di trovare storie campione, passami il termine, che fossero rappresentative di una serie di tipologie di persone che vivono in quelle circostanze, raccontandone la vita quotidiana e lasciando la guerra sullo sfondo.

Mi faresti un esempio?

Una città dove la guerra è sullo sfondo è Donetsk, perché, può sembrare una banalità. non tutti sono in prima linea. Bisogna immaginare un luogo in cui il centro città è come possiamo vivere noi il centro di Milano: negozi aperti, spose in mezzo ai parchi a farsi le foto, gente che lavora e gente che va al pub con gli amici. Appena ti sposti sul fronte ti sembra invece di essere sul Carso durante il ’15-’18.

Questa doppia personalità della città era estremamente affascinante, così come era affascinante poter raccontare le storie delle persone invisibili che poi la storia la fanno veramente.

Se parliamo di Spartaco, il volontario italiano che combatte nel Donbass, ho trovato illuminante analizzare le sue motivazioni, sia ideologiche che sociologiche. Il fenomeno Spartaco è comune a tante altre persone che lasciano una vita, che possiamo definire comoda, per andare a combattere guerre che non sono loro. Analizzare Spartaco è stato un modo per analizzare un fenomeno. Il lavoro su Spartaco parla di una storia di amore all’interno del conflitto, per provare a capire quali fossero le dinamiche e le interazioni che intercorrono tra un soldato italiano volontario e una ragazza che lavora nel teatro dell’Opera in città: il contrasto tra il il mondo della leggerezza e quello della brutalità, teatro e guerra.

Per adesso mi hai descritto emozioni ed eventi che hai seguito, ma mi hai dato lo spunto per qualche riflessione più generale. La prima è cosa significa per un fotografo la parola affascinante?

Il termine affascinante deriva dal fatto che cose che leggi sui libri di storia, in alcuni posti accadono in questo preciso momento. Mi viene in mente una citazione di un film, che riporto a memoria grossolanamente: “se vuoi capire una persona organizza una guerra e portala in guerra”.

La guerra demolisce le sovrastrutture che ci sono nelle persone e le riporta al nocciolo: se sei un rapace diventi ancora più rapace, se invece sei una persona umana, sarai ancora più umano. Questo è estremamente interessante, vengono abbattute le sovrastrutture e si torna all’essenziale.

Sulla mia strada ho incontrato persone che si sono fatte pagare per ottenere dei vantaggi, anche se sei un fotoreporter, consapevole insomma che potresti far emergere una storia; c’è però anche chi l’ha fatto, al contrario, perché ritiene il tuo lavoro importante.

Parlami della normalità in contesti di guerra invece.

Alla normalità è legata la privazione; viviamo in una società che diamo per assodata, così come determinate cose che fanno parte del nostro quotidiano. Diamo per assodato che se il semaforo è rosso è perché dobbiamo fermarci; nei luoghi in cui sono stato non è detto, il semaforo può essere rosso per chissà quale motivo, essendo una zona di bombardamenti. In zone di guerra cade tutto quel tessuto di norme e regole che noi stessi ci siamo dati per la convivenza. Dovremmo considerare che tutto quello che abbiamo non è dato ma è una conquista.

Nel 2012 l’Ucraina ha ospitato i campionati Europei di calcio, i fari del mondo erano concentrati su quel paese e la cosa assurda che quella gente ancora non si spiega, ed è anche la domanda che io faccio a tutti è: potevamo immaginare nel 2012 che di lì a poco sarebbe successo quello che è successo? No, assolutamente no, è la risposta.

C’è un bellissimo discorso di Robert Pirsig — autore di Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta — nel libro Lila: un’indagine sulla morale, dove viene fatto un discorso sull’evoluzione del mondo. All’interno del libro viene sviluppata una tesi, partendo molto da lontano. Pirsig parte dalla materia inorganica, all’origine, che è servita da substrato alla materia organica, per poter sopravvivere. Poi è la volta della società, che ha regolato l’organico, o il biologico. Per intenderci se vedo uno che mangia un panino mentre ho appetito, questo non mi basterà per dargli una bastonata: l’atteggiamento deriva da regole innate e da migliaia di anni di convivenza.

In seguito c’è stato l’intelletto che ha liberato la società quando questa ha iniziato ad imporsi sugli individui. Se pensiamo alla società Vittoriana e le sue rigide regole, pensiamo anche ad un uomo represso; l’intelletto entra in gioco per abbattere questo muro e liberare l’individuo.

Paradossalmente l’intelletto ha liberato troppo l’individuo e dunque si rende nuovamente necessario un ritorno della società, perché se l’individuo è troppo libero riemerge il biologico e distrugge la società.

Per intenderci: quando c’è una guerra, la società comunemente intesa viene distrutta e dunque riemerge il biologico che è in noi, l’aggressività, l’essere animali.

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Mi parli di cosa è emerso nel tuo caso?

Io ho la fortuna di avere un filtro, la macchina fotografica.

Sì, ma anche l’atteggiamento che si ha con lo strumento può essere un indicatore importante.

Assolutamente, però questo strumento ti da necessariamente un distacco, è inevitabile. Nel corso della carriera mi è capitato di fare sessioni di nudo. In queste circostanze, anche nel caso di donne nude e bellissime, fin provocanti, non vivi quel momento come fosse eccitante: questo aspetto svanisce perché quello che hai davanti sono forme, ombre e luci, composizione. Il corpo non ha una attrattiva in questi termini, perché tu ne stai estrapolando la materialità e analizzando la forma.

Perché si sente dire che tanti fotografi sono insensibili? Perché paradossalmente è proprio il mezzo che ti permette di essere distaccato rispetto a ciò che vedi.

Pensiamo al film I sogni segreti di Walter Mitty, dove Sean Penn veste i panni di un fotografo alla presa con il leopardo delle nevi. Dopo aver passato una vita per cercarlo, lo trova e non scatta alcuna fotografia, proprio per godersi la visione del reale che altrimenti non avrebbe potuto vivere in maniera così intensa.

Credo che taluni soggetti potrebbero usare le tue affermazioni come strumento di difesa.

A questo proposito ci tengo a dire un’altra cosa, ovvero quella che io chiamo sindrome del chirurgo, quell’aura di cui alcuni fotografi si appropriano, convincendosi che questo mestiere possa salvare vite umane. Dietro all’alone del fotoreporter alcuni celano questa speranza, proprio come se fossero dei chirurghi.

La verità è che fai un mestiere come tanti altri ma senza salvare alcuna vita; questo mestiere la puoi fare più o meno bene proprio come il chirurgo. Che poi per coincidenza salvi delle vite è un caso a parte. Prendiamo ad esempio la foto di Aylan, il bambino siriano morto sulla spiaggia. Quella è una foto che ha smosso le coscienze. È stata brava la fotografa che non ha mostrato il volto del bimbo. Aylan era vestito all’occidentale, sembrava stesse dormendo. Il mondo si è immedesimato in lui, perché si trattava di un bambino siriano agli occhi delle persone, ma di un qualsiasi bambino del mondo. È in questi casi che si vedono le potenzialità del mezzo, e certe volte gestire questa potenza può portare qualcuno a sentirsi onnipotente o superiore agli altri.

Non bisogna mai perdere di vista il fatto che si fa un mestiere. Sono gli esiti del tuo lavoro che possono andare oltre a quello che tu hai fatto, raggiungere un vasto pubblico, diventare opera d’arte, ma non è automatico. Non è perché fai il fotoreporter che ti puoi avvalere del lavoro dei grandi e sentirti grande a tua volta.

A te è mai capitato di sentire questo potere?

A me è capitato un sacco di volte di andare con la macchina fotografica in mezzo a uomini armati e vedere loro scappare cercando di nascondersi da me. Fa più paura una macchina fotografica a loro che a me dieci kalashnikov.

Prima ho parlato dei miliziani che mi hanno portato sul fronte il mio primo giorno a Donetsk. Mi trovavo in un posto segreto, postazioni di artiglieria, un gran numero di soldati: un posto in cui io non sarei dovuto di certo essere. Ma la scena che mi si è presentata davanti mi ha ricordato un formicaio scoperchiato: sceso dall’auto, appena i soldati hanno visto che al collo avevo una macchina fotografica la gente è come impazzita, c’era chi correva da una parte e chi dall’altra. Una cinquantina di persone armate terrorizzate dalla mia di arma, una semplice macchina fotografica. È per questo che dico che i fotografi hanno uno strumento potente.

Ho guardato le fotografie delle diverse storie, come se il destino dei soggetti fosse già scritto; la sensazione è quella di non poter avere la certezza di vedere altre fotografie di queste persone, visto il contesto in cui vivono e operano.

Secondo me dipende. Una delle storie che sto per tornare a riprendere è la storia di Maxim, soldato volontario ex giocatore professionista di hockey, conosciuto mentre era in trincea. Ho saputo che si è ritirato dall’esercito per tornare a giocare ad hockey, e questo mi affascina.

Siamo abituati a vedere i fotografi che raccontano sempre storie di tragedie, negative, di un qualcosa che voglia fare leva facilmente sui sentimenti degli spettatori, degli osservatori. A volte è giusto denunciare, credo però manchino storie ottimistiche.

Prediamo la storia di Spartaco, una storia di amore come ci hai raccontato. L’impressione che ho avuto non deriva tanto dalla storia in sé quanto dal racconto fotografico che hai realizzato: essendo Donbass Stories una serie di storie, ho la sensazione che una di queste potrebbe un giorno spezzarsi a causa della guerra.

Guardando la storia di Spartaco ho sempre avuto questo pensiero: qualsiasi cosa succeda nel Donbass, Spartaco sarà sempre uno di quelli che a casa ci torna: è stato ferito quattro volte, ha partecipato alla battaglia dell’aeroporto. Sono morti tanti dei suoi compagni ma lui sta sempre lì in prima linea, da lì torna sempre. Ha la forza di aver fatto coincidere il suo io ideale con l’io reale, si è sempre visto in quel ruolo.

Al di là di come la si possa pensare, al di là del fatto che tu possa pensare che lui stia dalla parte giusta o sbagliata della storia, sulla quale io non entro in nessun modo nel merito, quello che rispetto è la sua scelta. Spartaco si vede in trincea, lui fa quello per cui si sente di essere nato.

Conosco tanta gente che ricopre ottime posizioni in ambito lavorativo, di buona famiglia, ma che non si sentono soddisfatti. Non si può generalizzare, certo, ma probabilmente dietro ad una nevrosi si nasconde questa mancato allineamento tra i desideri e la vita reale. Una volta, mentre parlavo con la madre di Spartaco, è saltato fuori proprio questo particolare: i ha raccontato che prima della guerra il figlio era sempre nervoso, irascibile. Dopo tre anni di assenza ha rivisto il figlio, un uomo diverso, sereno e tranquillo, che aveva trovato il suo posto nel mondo.

La mia posizione è quella dell’osservatore, e come tale non mi posso permettere di dare un giudizio su questa persona, ne posso però essere affascinato, soprattutto dalla sua ferma determinazione. Spartaco è partito senza conoscere una parola di russo. Aveva giusto uno zaino in spalla con un paio di scarponi militari e una divisa.

Qualcuno potrebbe esaltarlo come un’eroe e qualcuno potrebbe definirlo un assassino, ma non sta a me giudicare la sua persona.

Però, ricordiamoci che molte persone si lamentano perché la penna che hanno sulla scrivania scrive a tratti o il computer che riflette male. A Spartaco gli hanno messo un mitra in mano, una settimana di addestramento e gli hanno detto vai, trovandosi nell’inferno in un batter d’occhio.

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Come hai conosciuto le persone su cui poi ha scritto le storie che hai raccontato. Le hai trovate, ti sono venute incontro, le hai cercate.

Guarda, semplicemente muovendoti in quel contesto, ti capita di incontrare persone. Parlando sempre di Spartaco, ho avuto l’occasione di conoscerlo mentre due giornalisti italiani, Andrea Ceresini e Lorenzo Giroffi, lo stavano intervistando.

Da cosa nasce cosa: entrato in contatto con il mondo delle miniere, quelle artigianali, le cosiddette Kopanki, ho pensato per esempio che avrei dovuto sapere dove vive e come vive un minatore. Così ti si apre un mondo dietro l’altro. Ragazzi che con malattie polmonari che lavoravano per l’equivalente di un paio di centinaia di euro al mese a trecento metri sotto terra, coperti dalla polvere di carbone. Il carbone è importante perché è paradigmatico del Donbass. Maxim l’ho conosciuto per caso in una casetta.

Il caso del teatro invece è diverso, l’ho cercato io. Si tratta di un teatro molto attivo, a livelli molto alti, della tradizione del Bolschoi. È un luogo in cui ci lavorano quasi cinquecento persone. Realizzano gli abiti di scena da soli, c’è il calzolaio che fa le scarpe, c’è chi dipinge gli scenari e tutto il resto. Sapere come vive una ballerina del teatro di Donietsk per me è assolutamente coinvolgente. Le grazie e l’orrore della guerra.

In conclusione: le storie le cerchi perché visualizzi la storia come contenuto o la storia per immagini?

Tieni conto che per raccontare una persona devi entrare in sintonia con il soggetto, prima di ogni cosa. Quando metti l’obiettivo di fronte a qualcuno il termine che usi è puntare l’obiettivo, è un atto aggressivo. È facile capire che è un atto di aggressione nei confronti di una persona. Quindi tu puoi permetterti di fare solo dopo un certo livello di confidenza che tu hai con quella persona. Entri in punta di piedi , e scarti alcune fotografie che vorresti fare, magari anche belle e sensazionali non le puoi fare perché ancora non sei a quei livelli e rischi di pregiudicare il lavoro futuro. Rinunci al raggiungimento di un obiettivo minimo subito per poi averne uno più grande in futuro.

Quando poi capisci che hai instaurato un certo livello di confidenza, quando la tua presenza diventa invisible, allora puoi iniziare a scattare. Mano a mano che, come un puzzle, inizi ad incastrare i pezzi. Una volta che conosci la persona allora puoi avere una idea dell’andamento di quella storia e tu dunque ti vai a cercare quelle immagini che si incastrano in questo contesto. Questo a me è avvenuto un po’ con tutti. Per esempio quando un minatore mi ha detto che abita in una casa senza luce, , senza gas, da solo, io ho pensato che voglio andare.  Voglio vedere, voglio andarci, voglio sapere di più di questa persona. Quando ho fatto il lavoro sui minatori avevo fatto un lavoro sul loro lavoro, però vedere il loro lavoro mi ha posto delle domande per le quali io volevo saperne di più di quelle persone lì. Mi mancava il lato privato in quel caso, cosa passa nella testa di queste persone quando escono dal lavoro, che privato c’ha? E a quel punto aggiungi i vari tasselli e a quel punto la storia ti si completa davanti . Per esempio io addeso ho la storia di Spartaco, che ha vinto un premio internazionale, ma io adesso ho intesta di fare altre giusto 3–4–5– foto che ho già in testa, per esempio mi manca una foto in cui ci sia Spartaco con tutta la famiglia, non ne ho una con i bambini e la compagna. E sento che la devo avere una foto così, è un pezzo fondamentale del puzzle. È questa la differenze fondamentale tra il mainstream il freelance perché tu ti puoi permettere di ritornarci e aggiungere un tassello. Poi, anche perché io sono come i giapponesi. C’è la mostra di Hokusai, i giapponesi ridipingevano i quadri 100 volte finché non raggiungo la perfezione.

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Giorgio Bianchi nasce a Roma nel 1973. Ha realizzato reportage in Europa, Siria, Ucraina, Burkina Faso, Vietnam, Myanmar, Nepal, India. Nella sua fotografia Giorgio ha sempre posto particolare attenzione alle tematiche di carattere politico e antropologico, alternando i progetti personali a lungo termine ai lavori su commissione. Dal 2013 ha compiuto diversi viaggi in Ucraina per documentarne attraverso immagini e video la crisi, a partire dagli scontri di Euromaidan fino all’odierno conflitto nel Donbass. Con il materiale raccolto negli anni sulla guerra in Ucraina sta realizzando un docu–film dal titolo “Apocalypse Donbass”, che è stato selezionato tra i progetti finalisti nell’edizione 2017 dei DIG Awards pitch session ed è vincitore del premio Spot light Award all’edizione 2017 del Festival della Fotografia Etica di Lodi. I suoi lavori sono stati pubblicati su importanti testate nazionali ed internazionali ed è vincitore di numerosi premi.