Parte dall’analisi del San Sebastiano, capolavoro di Raffaello esposto all’Accademia Carrara di Bergamo, la mostra “Raffaello e l’eco del mito” che aprirà il 27 gennaio per prolungarsi sino al 6 maggio.
L’esposizione, organizzata dalla stessa Accademia Carrara in collaborazione con la GAMeC, è l’evento artistico più importante dell’anno che si terrà a Bergamo e la sua organizzazione ha richiesto anni di preparazione. Sono, infatti, diversi i centri artistici sparsi per il mondo che hanno concesso le loro opere in prestito; un totale di sessanta capolavori (di cui 13 di Raffaello) che spaziano dal XVI secolo ad oggi, provenienti da prestigiosi musei come le Gallerie dell’Accademia di Venezia e degli Uffizi di Firenze, la Pinacoteca di Brera, l’Hermitage di San Pietroburgo, la National Gallery di Londra, la Galleria Nazionale di Roma, il Bode Museum di Berlino, il Pushkin di Mosca e il Metropolitan Museum di New York.
Tre i percorsi lungo i quali si dipana il sentiero artistico e filologico che anima la mostra: il primo compie l’esplorazione del retroterra storico e culturale di Urbino, presso la cui corte Raffaello si formò. Il San Sebastiano custodito nelle sale dell’Accademia, permeato dalle influenze del Perugino è l’opera di sutura che permette alla mostra di scansionare il mito raffaellesco nato e sviluppatosi nell’Ottocento e che rappresenta la seconda parte del percorso espositivo. Il San Sebastiano, infatti, è giunto nelle sale della pinacoteca bergamasca nel 1836, sull’eco del rinato interesse per Raffaello avutosi nel Romanticismo; interesse accresciuto dalla scoperta del corpo del pittore urbinate avvenuto nel 1833 nel Pantheon sotto la statua di Lorenzo Lotto, pittore che proprio a Bergamo operò nel primo Cinquecento.
La terza ed ultima parte del perlustrato espone opere di artisti come Picasso, De Chirico, Salvo, Ontani, Paolini che ripropongono l’arte raffaellesca in varie forme e, a volte, perpetuandone l’identificazione fatta nell’Ottocento con il classicismo.
In realtà il pittore marchigiano, nato nel 1483, va ben oltre gli stereotipi del classicismo, essendo il suo stile in continuo cambiamento. La morte avvenuta nel 1494 del padre, Giovanni de’ Santi, non ha permesso a Raffaello, allora appena undicenne, di assorbirne appieno lo stile, ma l’eredità letteraria e intellettuale che il Giovanni padroneggiava, fu di certo prezioso stimolo per tutta la seppur breve vita del figlio. Cresciuto alla corte umanista di Federico da Montefeltro, a cui Giovanni de’ Santi aveva dedicato un poema, Raffaello si impregnò di tecniche figurative e pittoriche studiando le opere di artisti a lui coevi come Mantegna, Piero della Francesca, il Pollaiolo, ma anche fiamminghi come Jan Van Eyck, da cui Raffaello acquisì il gusto per il particolare.
L’attività presso la corte urbinate lo porta a dipingere i Ritratti di Guidobaldo I da Montefeltro e della moglie Elisabetta Gonzaga, quest’ultimo caratterizzato da una posa frontale e innaturalmente statica, ma il cui paesaggio sullo sfondo denota già l’interesse di Raffaello verso Leonardo da Vinci.
Accantonando le notizie, oggi ritenute parzialmente inesatte, contenute nelle Vite del Vasari, le prime notizie certe sulla sua formazione si devono al Libretto veneziano, una serie di note dei primi anni del Cinquecento attribuite ad un artista allievo o amico del Nostro, che avrebbe ordinato in 53 pagine gli appunti e gli schizzi compiuti da Raffaello durante i suoi già numerosi viaggi in Umbria. Il libretto conferma l’influenza del Perugino e del Mantegna sulla formazione artistica del giovane urbinate, ma al tempo stesso aggiunge altre influenze, come quelle del Signorelli, di cui apprezza gli studi anatomici, del Pinturicchio (le grottesche), del Pollaiolo, con i suoi nudi. Ma è la frequentazione della corte di Federico da Montefeltro a far ancora da padrona: delle 53 pagine del Libretto, ben dieci sono dedicate alle rappresentazioni di gusto fiammingo degli Uomini illustri contenute nello Studiolo del Duca di Urbino, completate da Joos van Wassenhove (Giusto di Gand) e Pedro Berruguete. A soli 17 anni Raffaello è già magister e risale al 10 dicembre 1500 il suo primo contratto per dipingere la Pala del beato Nicola da Tolentino, ordinato dalle monache del monastero di Sant’Agostino di Città di Castello e di cui rimangono alcuni frammenti tra cui le due predelle, Nicola da Tolentino resuscita due colombe e Nicola da Tolentino soccorre un fanciullo che annega.
È il preludio della sua feconda, quanto breve, attività artistica che esplode in tutta la sua vitalità espressiva nel 1502-1504 con due opere che segnano la svolta di Raphael urbinas: la Crocifissione Mond, o Gavari, un’opera di cui “se non vi fusse il suo nome scritto, nessuno la crederebbe opera di Raffaello, ma sì bene di Pietro” come scrisse il Vasari (“se non vi fosse il suo nome scritto, nessuno la crederebbe opera di Raffaello, ma del Perugino”) e lo Sposalizio della Vergine, oggi nella Pinacoteca di Brera. È sempre di questo periodo il San Sebastiano dell’Accademia Carrara, i cui tratti ovali del volto sono di chiara ispirazione dal Perugino.
Con il cavallo impennante di San Giorgio e il drago oggi al Louvre, Raffaello si discosta dallo stile del Perugino per approdare agli studi leonardeschi che trovano nelle Tre Grazie, conservato al Museo Condé di Chantilly, il completo compimento. Siamo nel 1504, anno in cui il pittore si trasferisce a Firenze venendo in contatto con i lavori di Michelangelo e Leonardo.
È qui che Raffaello vede la Gioconda ed è chiaramente questo il quadro a cui si ispira quando dipinge, attorno al 1506, il Ritratto di Maddalena Strozzi e del suo consorte Agnolo Doni. Ritraendo i propri soggetti a tre quarti con la testa rivolta verso chi guarda, l’introspezione psicologica assume un carattere primario. Il rimando alla Gioconda è particolarmente evidente nella postura di Maddalena Strozzi, ma mentre le sue mani copiano l’immagine leonardesca, il volto serio e composto cozza contro il modello oggi conservato al Louvre. Di fattura leonardesca è anche la celebre Dama col liocorno, dello stesso periodo del Ritratto di Maddalena Strozzi, che non può non far pensare alla Dama con l’ermellino nel modo in cui la giovane dipinta da Raffaello sostiene l’animale mitologico, simbolo di purezza e castità (solo una vergine poteva addomesticare un liocorno).
A Firenze dipinge anche il famoso Autoritratto caratterizzato dalla torsione del busto che verrà poi riproposto dallo stesso Raffaello nella Scuola di Atene nelle Stanze del Vaticano.
Il soggiorno fiorentino è foriero di ispirazione per Raffaello: oltre a Leonardo si imbatte in Michelangelo e la Madonna Bridgewater, con la torsione della figura della Vergine e la vitalità espressa dal Bambino che si aggrappa al velo della Madonna, è ispirata dal bassorilievo Tondo Taddei michelangiolesco.
È la vigilia del trasferimento a Roma, avvenuto nel 1508 durante il papato di Giulio II (Giuliano della Rovere), sotto la cui direzione la Chiesa si accinge a divenire una potenza militare (fu Giulio II ad istituire il corpo delle Guardie Svizzere e fu Raffaello, e non Michelangelo, ad ispirare la variopinta divisa). Giulio II capisce che l’arte avrebbe potuto essere utilizzata per fini politici; nomina Bramante a capo delle attività artistiche del Vaticano e nello stesso anno dell’arrivo di Raffaello a Roma, incarica Michelangelo di affrescare la volta della Cappella Sistina. All’urbinate, invece, commissiona gli affreschi del nuovo appartamento papale per non dover vivere nelle stesse stanze abitate dal suo predecessore, l’odiato Alessandro III della famiglia Borgia. Nonostante i lavori nelle nuove stanze fossero già stati avviati da una nutrita squadra di pittori come il Perugino, Signorelli, Bramantino, Lotto, Giulio II ordina a Raffaello di ricominciare da zero; solo il lavoro di Sodoma, nella Stanza della Segnatura, viene risparmiato, mentre la Stanza di Costantino verrà terminata dagli allievi di Raffaello dopo la sua morte.
È nella Scuola di Atene, la scena dipinta nella Stanza della Segnatura di fronte alla Disputa sul Sacramento, che dietro Tolomeo e Zoroastro troviamo l’autoritratto di Raffaello a cui viene accostato un altro personaggio, molto probabilmente il padre Giovanni de’ Santi. Aggiunto postumo, probabilmente per volontà di Giulio II e sicuramente dopo il 1512, c’è un altro pensatore greco, Eraclito, il quale ha le sembianze di Michelangelo, omaggio del papa verso l’autore della Cappella Sistina dopo la sua inaugurazione.
Durante il completamento della Stanza di Eliodoro, Giulio II muore e al soglio pontificio assurge Leone X, la cui politica di pace si contrappone a quella di chi lo aveva preceduto. Raffaello, che sta dipingendo L’incontro fra Attila e Leone Magno coglie immediatamente l’occasione dando al papa che incontra Attila e che porta il medesimo nome, la fisionomia del nuovo vicario di Cristo. È un affresco importante non solo per la preziosità stilistica, ma perché rappresenta un nuovo punto di svolta della sensibilità raffaellesca. L’incontro, infatti, avviene in un paesaggio duplicato: la parte destra che fa da sfondo ad Attila è caratterizzata da uno scenario selvaggio e desolato, simbolo di distruzione e morte, mentre Leone X, calmo e serafico, ha alle sue spalle una Roma in rovina, sì, ma che ricorda la sua grandezza passata.
Sembra quasi che Raffaello dipinga la scena dell’incontro avendo già in mente la famosa lettera che scriverà al papa nel 1519. Eppure siamo solo nel 1513-14.
Prima della morte di Giulio II vengono dipinte altre due Madonne: la Madonna di Foligno, conservata nella Pinacoteca Vaticana, e la Madonna Sistina, oggi al Gemaldegalerie di Dresda. Quest’ultima, oltre a essere stata la prima opera di Raffaello a sbarcare nel nord della penisola, è nota al grande pubblico per i due angioletti che si appoggiano con sguardo furbesco sulla base del quadro guardando la discesa della Vergine verso i fedeli.
La morte, avvenuta nel 1514, del Bramante promosse Raffaello a sovrintendente alla Fabbrica di San Pietro. Occupato più come architetto che come pittore, trova ancora il tempo per dipingere alcune opere, come la Madonna della Seggiola, il cui quadro tondo rappresenta uno dei rari esempi di esperimenti di stampo botticelliano. Proprio la forma inconsueta del dipinto indica che questo sia stato ordinato da un committente privato. Anche l’abbigliamento popolano e trasandato della Madonna, nonché la postura poco nobile e l’insolito sguardo verso lo spettatore e incurante sia del figlio che di Giovannino, parrebbero far escludere una funzione religiosa al quadro.
Proprio nell’ultimo anno di vita il pittore di Urbino dipinge uno dei quadri più famosi: La Fornarina, che terrà nel suo studio fino alla morte. L’identità della donna ritratta sembra sia Margherita Luti, figlia di Francesco Luti, un fornaio di Trastevere e già utilizzata come modello per la Velata (1516) e la Madonna Sistina (1513-1514). Il rapporto tra i due sarebbe, quindi, di lunga data, e si suppone che si sarebbero sposati in segreto. Alla morte di Raffaello, Margherita si sarebbe ritirata nel Monastero di Sant’Apollonia a Trastevere.
Leone X commissiona a Raffaello anche dieci arazzi da appendere a rotazione nella Cappella Sistina sul tema delle Storie dei santi Pietro e Paolo.
Nel 1519 viene recapitata al papa la famosa Lettera di Raffaello d’Urbino a Leone X, in realtà una prefazione di disegni dei monumenti classici di Roma eseguiti su incarico del papa. Nella lettera il sovrintendente Raffaello contrappone le bellezze e i fasti dell’architettura classica di epoca romana alla decadenza del gotico, arte “tedesca”. Ma il Nostro individua anche i motivi della decadenza della Roma medioevale anche nell’incuria umana, da cui non salva neppure i papi, che hanno permesso di utilizzare i monumenti come cave di pietra. Una critica che sottintendeva un elogio a Leone X e al suo mecenatismo e che auspicava un rinascimento degli antichi fasti sotto la direzione papale, sede del potere spirituale, ma, proprio per quanto si auspicava nella lettera, anche temporale.
Raffaello non vedrà mai realizzata la ricostruzione di Roma: morirà il 6 aprile 1520.