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in copertina: foto CC di John Perry; nell’articolo: illustrazioni dell’autrice

Il Ministero dell’Istruzione ha presentato le sue “linee guida” per l’utilizzo dello smartphone in classe, ma è un’idea che rischia di aggravare una situazione già disastrosa.

All’interno di “Futura,” tre giorni bolognese dedicata a iniziative formative e dibattiti sulla scuola, la Ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha ripetuto quanto annunciato nei giorni scorsi circa le linee guida che il ministero ha predisposto sull’utilizzo degli smartphone e i tablet in classe.

“I ragazzi vanno accompagnati, serve una nuova alfabetizzazione digitale,” e ancora — ha ribadito la necessità di una “alleanza tra piattaforme, università, enti scientifici e mondo dell’editoria per fare diventare la scuola l’anticorpo naturale delle fake news.”

Il decalogo, contrassegnato dall’acronimo BYOD “Bring Your Own Device” (sì, sul serio) è un elenco piuttosto generico che, alternando frasi lapalissiane (“ogni novità comporta cambiamenti”) ad altre più meno condivisibili in larga parte (“le tecnologie digitali sono uno dei modi per sostenere il rinnovamento della scuola”), dice in sostanza che la scuola deve formare la “cittadinanza digitale” accogliendo e non ingaggiando una lotta aprioristica a qualunque tipo di device. Senza però effettivamente spiegare come fare all’atto pratico e lasciando queste linee guida molto ariose.

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Lo “sdoganamento” dello smartphone in classe era già stato anticipato da un’intervista rilasciata dalla ministra a Repubblica lo scorso settembre. In quell’occasione aveva detto:

“È uno strumento che facilita l’apprendimento, una straordinaria opportunità che deve essere governata. Se lasci un ragazzo solo con un tablet in mano è probabile che non impari nulla, che s’imbatta in fake news e scopra il cyberbullismo. Questo vale anche a casa. Se guidato da un insegnante preparato, e da genitori consapevoli, quel ragazzo può imparare cose importanti attraverso un media che gli è familiare: internet. Quello che autorizzeremo non sarà un telefono con cui gli studenti si faranno i fatti loro, sarà un nuovo strumento didattico.”

Per questo, durante “Futura,” Fedeli ha specificato la necessità che gli insegnanti siano formati su un argomento piuttosto spinoso, come il riconoscimento di una fake news — tema alquanto caro ultimamente all’intero governo nei suoi ultimi attimi di vita — e ha annunciato che saranno stanziati 25 milioni di investimento per la formazione degli insegnanti in merito alle competenze digitali.

Fino a qui, verrebbe da dire, tutto bene.

Non è chiaro però, come sia possibile che, allo stesso tempo, agli studenti sia “inibito” — così ha detto Fedeli — l’uso personale dello smartphone in classe (in particolare l’utilizzo di chat) se non condiviso con l’insegnante. Come può un insegnante con 25 o 30 alunni in classe avere il pieno controllo di tutto ciò che viene ricevuto e inviato da ciascun telefono?

Non può. Ecco un primo punto.

La seconda questione, che ha sollevato qualche polemica, è relativa al fatto che alle elementari e alle medie difficilmente si può pensare che a degli studenti, per la maggior parte ancora bambini, venga fatto passare il messaggio che lo smartphone sia uno tout court strumento di apprendimento. Per il semplice motivo che in mano a studenti in un’età dove ancora è lontano il concetto di autodisciplina, sollecitarne l’utilizzo in classe rischierebbe soltanto di essere una distrazione dannosa. Distrazione che comunque occupa già una porzione considerevole del loro tempo al di fuori delle mura scolastiche.

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Investire nelle scuole fornendole di banda larga gratuita, supporti tecnologici e altri modi per interfacciarsi con il digitale, sono iniziative virtuose e che possono portare dei risultati positivi.

Ma senza contare che di fatto tablet, Lim (la lavagna interattiva multimediale, un’interfaccia interattiva tra docente e studenti) e altri supporti digitali già esistono e sono parte della quotidianità di molti studenti (mi riferisco in particolare al supporto garantito per legge agli studenti con disturbi di apprendimento), quello che il Ministero sembra lasciare intendere con quest’ultima “svolta” è che tali strumenti non siano un semplice supporto, ma la base stessa della conoscenza.

“È cambiato il modello cognitivo,” ha detto la ministra, per cui deve cambiare il modello con cui si insegna. Un po’ come a dire che più che fornire le scuole di tecnologie didattiche adeguate (per esempio, aule di informatica) si dica agli insegnanti “i supporti i vostri studenti già li hanno, ma dovete imparare voi stessi a usarli.” È discutibile, peraltro, che uno smartphone aiuti davvero gli studenti ad acquisire nuove conoscenze. Diversi studi, anzi, dimostrano il contrario.

In un’intervista al New York Times, pubblicata nel marzo dello scorso anno, lo scrittore Adam Alter spiega come gli smartphone innanzitutto creino dipendenza e come abbiano inibito gran parte delle funzioni di apprendimento di coloro che ne fanno un uso quotidiano.

“Se utilizzi quotidianamente lo smartphone per tre ore, quello è un tempo che non stai utilizzando nelle interazioni faccia a faccia con altre persone. Gli smartphone soddisfano tutti i bisogni del momento ma non richiedono grande iniziativa. Non devi ricordarti mai niente perché tutto è esattamente davanti a te. Non devi sviluppare abilità mnemoniche o creative.”

Incrementare sin dalla tenera età l’utilizzo dello smartphone rischia di avere come conseguenza quella di creare alienazione e incapacità relazionale in un più vasto numero di soggetti. E ancora, si incrementa il rischio che i soggetti in questione, se devono scegliere tra approccio digitale e reale, preferiscano il primo. Peraltro aumentando il senso di insicurezza che proprio il mondo digitale suscita (e questo a prescindere dall’età).

Proprio per questo, anzi, un’educazione all’utilizzo delle tecnologie e di internet è fondamentale. Ma un discorso del genere non può non tenere tenere conto della quotidianità di un professore che entra in classe e trova più della metà degli studenti incollati davanti al proprio smartphone. Benedetto Vertecchi, pedagogista dell’università di Roma, ha messo in luce come i device come i tablet riducano la consapevolezza ortografica e le capacità argomentative. Rischio, a cui si può ovviare alla vecchia maniera.

Il nodo centrale della questione è che non si può pensare di educare a una consapevolezza digitale se non si è in grado di regolarizzare innanzitutto la fruizione dei device.

In Francia, recentemente il governo ha deciso di prendere la direzione opposta, vietando i cellulari nelle scuole elementari e medie, obbligatoriamente per tutti, professori compresi. Una soluzione che, per quanto tranchant, fa capire a chiare lettere che non si può pensare allo smartphone come a un componente essenziale della vita.

Sarebbe ingenuo non riconoscere che gli studenti nati nella generazione digitale siano già profondamente segnati dalle tecnologie che li circondano, e come tali non sono in grado di immaginare un mondo senza. Ma proprio per questo la scuola può essere il luogo dove è ancora possibile insegnare il concetto di limite e di pausa dall’immersività della tecnologia. Ricordando quindi che esiste un concetto di socialità ben distinta dalla socialità digitale.

Non è civile una società in cui lo smartphone è un estensione essenziale dell’essere umano, non è soltanto incentivandone l’utilizzo che si aiuta gli adolescenti al riconoscimento di una fake news. E soprattutto, insegnare agli adolescenti che è esiste una vita al di là di quella digitale, è uno dei modi per evitare scenari immaginari ormai più che probabili.

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