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Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Riccardo degli Indianizer tra spiritualità hawaiana, psichedelia e meditazione. La prossima primavera gli Indianizer pubblicheranno il loro secondo disco, Zenit. Voi però potrete già ascoltarlo in anteprima, dal vivo, venerdì sera a WOW – roba fresca a Milano.

Gli indianizer sono Riccardo Salvini (voce/chitarra), Gabriele Maggiorotto (batteria/voci), Matteo Givone (chitarra/voci) e Salvatore Marano (synth bass/tastiere).

Come sono nati gli Indianizer?

La band attuale è nata nel 2013. Tra il 2013 e il 2014 abbiamo pubblicato due ep, Pandas e Jungle Beatnik mentre un paio di anni fa siamo usciti con il primo disco, Neon Hawaii. Oggi siamo sempre più diretti verso la direzione del ballo. Adoriamo suonare dal vivo, la dimensione del live e insieme al ballo andiamo alla ricerca della psichedelia.

È la prima volta che suonate al Magnolia?

No, avevamo già aperto i Fat White Family. Io invece ho suonato coi Foxhound in apertura ai TOY e al MIAMI qualche anno fa. In ogni caso è sempre un bel palco.

Finora abbiamo chiesto a tutti i gruppi che hanno partecipato alla serata di WOW – roba fresca a Milano di raccontarci un loro “momento wow” vissuto al Magnolia. Ci racconti il tuo?

Forse il mio momento wow è più legato ai live. Quando sono stato al MIAMI coi Foxhound è stato particolarmente intenso perché erano tutti sotto al palco a ballare e la gente era veramente gasata. Con Indianizer direi vedere i Fat White Family nella loro vita normale che mangiano disagiati al tavolo. Quello direi che è stato il momento più wow. Vedere il disagio degli scozzesi! (ride)

Tornando a Neon Hawaii, il vostro ultimo disco, da cosa nasce la curiosità verso quei luoghi?

Diciamo che in realtà con la parola “Neon” volevamo proprio togliere la connotazione geografica. Vedevamo le Hawaii come questo luogo metafisico e irraggiungibile. Questo è un discorso che abbiamo continuato anche con il disco nuovo, Zenit. Quindi, va beh, le Hawaii sono delle isole disperse nell’oceano e ci affascinava molto l’idea di essere persi su una spiaggia a migliaia di chilometri da tutto. Non è un tifo calcistico, diciamo, ma più una ricerca di qualcosa che poi in realtà non esiste.

Nel disco alcuni titoli fanno riferimento alle divinità hawaiane. Haumea è la dea della fertilità, Aumakua quella della famiglia. A cosa è dovuta la ricerca della spiritualità?

Anche se siamo molto legati al ritmo e alla catarsi a cui può portare (se è quello che cerchi) allo stesso tempo vediamo proprio nella condizione della trance una sorta di spiritualità. Ogni tanto siamo anche soliti fare dei live più “casalinghi”, più meditativi, legati a una musica senza ritmo, senza spazio. Da quel punto di vista ci sembra uno dei pochi modi per evadere dal ritmo frenetico della vita.

Invece di Zenit, il vostro nuovo album che uscirà in primavera, cosa ci potete raccontare?

In Zenit abbiamo cercato di identificarci con un sound più specifico cercando di far incontrare lo spirito dei Meridian Brothers, che è un gruppo colombiano di Cumbia Psichedelica, con l’attitudine rock dei King Gizzard and the Lizard Wizard. È molto legato al ritmo ed è un album più oscuro di Neon Hawaii. Uscirà per Musica Altra e cercheremo di fare sia un tour italiano che un tour europeo.

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Ho letto che all’interno di Zenit ci saranno anche dei brani cantati in una lingua inventata.

Sì, proprio da questo punto di vista il disco nuovo ha una serie di novità rispetto a Neon Hawaii. Abbiamo preso le sonorità che potevano avere le parole hawaiane di Neon Hawaii e le abbiamo fatte nostre utilizzando una lingua inventata molto istintiva. Poi ci saranno dei pezzi in inglese e anche un pezzo in spagnolo. Insomma abbiamo anche cercato di unire geograficamente nello stesso posto diversi luoghi, diverse lingue e diverse culture; cosa che normalmente non è fattibile ma è resa possibile proprio dalla musica.

Tra l’altro è un’idea abbastanza matta quella di inventare una nuova lingua. Come avete fatto?

In realtà non abbiamo inventato una vera e propria lingua, sono più dei passaggi, non sono proprio dei brani interi cantati in questa lingua, per così dire “indianizer.” Il tutto è scaturito dal fatto di potersi esprimere attraverso il suono senza dover per forza narrare una storia o dare un significato. Volevamo esprimerci semplicemente, appunto attraverso il suono, e la via più semplice ci sembrava inventare delle parole.

Una sorta di linguaggio primordiale.

Esattamente. Non abbiamo fatto come i Sigur Ros che inventano dei nuovi mondi con delle lingue stupende ma volevamo avvicinarci quasi a una condizione di trance perchè, utilizzando parole inventate, è più facile far viaggiare la mente.

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