Discovery Channel

in copertina: Paul Bettany nel ruolo di Ted Kaczynski in Manhunt: The Unabomber

Di sicuro resta una bella serie tv su Netflix. Ma l’eredità del vecchio terrorista è più profonda e inquietante di quanto pensiamo.

Mettendo fine all’operazione di polizia più lunga e costosa della storia degli Stati Uniti, il 3 aprile del 1996 l’FBI arresta Theodore John Kaczynski, il terrorista noto come Unabomber, nella sua capanna sperduta tra i boschi del Montana. Kaczynski viveva lì dal 1971, senza elettricità e acqua corrente, e gran parte di quel tempo l’aveva passato a fabbricare pacchi bomba da spedire a varie persone in giro per il paese — uccidendone tre e mutilandone una ventina.

Tre mesi dopo il suo arresto, esce nelle librerie Fight Club, il best seller di Chuck Palahniuk, in cui un protagonista schizofrenico, trascinato alla follia dalla propria grigia esistenza impiegatizia, mette in piedi un gruppo terroristico che ha fondamentalmente l’obiettivo di distruggere la società dei consumi tramite attentati e sabotaggi.

Il suo alter ego rivoluzionario e nichilista, Tyler Durden, incarna i princìpi di una filosofia basata sul disprezzo per le restrizioni sociali, il consumismo e la piccolezza conformista dell’americano medio — con un lavoro d’ufficio, un’automobile, un appartamento arredato IKEA, eccetera. Sono idee a dire il vero piuttosto banali, già presenti in Trainspotting, a tracciare le coordinate ideali di una sorta di beat generation anni ’90 — ma sono anche molto simili a quelle che Ted Kaczynski aveva espresso nel suo manifesto, un saggio di 35 mila parole intitolato La società industriale e il suo futuropubblicato dal Washington Post nel 1995. In cambio della pubblicazione, Kaczynski — che a piede libero firmava tutte le proprie lettere, e le proprie bombe, con la sigla FC, dove la F però sta per Freedom — aveva promesso di smetterla con l’attività terroristica.

In estrema sintesi: il manifesto sostiene la necessità di distruggere alla radice la società industriale, per consentire all’uomo di tornare alla propria vera natura. Confrontandolo con le tirate di Tyler Durden, si incontrano spesso corrispondenze quasi letterali. Per esempio:

L’Americano medio dovrebbe essere descritto come una vittima dell’industria della pubblicità e del marketing, che l’hanno costretto a comprare un sacco di spazzatura di cui non ha bisogno, paragrafo 190.

Il finale del film tratto da Fight Club nel 1999 ce l’abbiamo in mente tutti: probabilmente in virtù di quella scena, David Fincher avrebbe partecipato a una seduta di brainstorming, insieme ad altri registi di Hollywood e ufficiali del Pentagono, per delineare “possibili scenari terroristici” dopo l’11 settembre. Con lui c’era anche Paul Debevec, curatore degli effetti speciali di Matrix.

Ted Kaczynski, nel frattempo, rifiutando la linea della difesa che voleva farlo passare per schizofrenico (proprio come il protagonista di Fight Club!), ha ammesso la propria colpevolezza e si è beccato otto ergastoli senza possibilità di condizionale. Nel carcere di massima sicurezza di Florence, Colorado, dove si trova tuttora, stringe amicizia con Ramzi Yousef, uno dei responsabili del primo attacco terroristico contro il World Trade Center (1993), e nipote di Khalid Sheikh Mohammed, il principale artefice dell’11 settembre, oggi detenuto a Guantanamo.

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Usciti entrambi nel ’99, Matrix e Fight Club hanno influenzato profondamente la cultura pop degli anni Duemila, cogliendo un trend di paranoia e fobia collettiva che era evidentemente nell’aria nella società statunitense di fine millennio. Come film di culto sono entrati poi nello stesso ciclo paradossale che sarebbe toccato, qualche anno dopo, a V for Vendetta: prodotti dell’industria dell’intrattenimento per eccellenza trasformati in manifesti rivoluzionari a buon mercato, inni anticonformisti massificati e spezzettati in comodi simboli (la maschera di Guy Fawkes, prodotta in serie) o citazioni ispirazionali (Tyler Durden, antologizzato su YouTube).

In Matrix, un assunto filosofico vecchio più di duemila anni — rinverdito alla fine del Novecento da Hilary Putnam con il suo celebre argomento dei “cervelli in una vasca” — diventa l’archetipo del cospirazionismo contemporaneo, che proprio nell’11 settembre troverà la sua palestra classica. Eccezion fatta per qualche precursore negli anni ’80, come Essi vivono di Carpenter — anche lui ovviamente recuperato dal complottismo di destraMatrix inaugura a pieno titolo la nostra era del sospetto. Un gruppo di “svegli” buca l’illusione della realtà e ingaggia una guerra con le macchine per liberare la massa dormiente dell’umanità dalla schiavitù tecnologica — aspetta, non è esattamente quello che pensava di fare Ted Kaczynski?

In questo vorticoso inseguimento tra realtà e finzione, la miniserie di Discovery Channel Manhunt: The Unabomber, disponibile da oggi su Netflix, rappresenta per certi versi una nuova giravolta: Kaczynski non sarà stato contento di vedersi trasformato in un prodotto di intrattenimento, di quelli che — come si legge a chiare lettere nel manifesto — servono soltanto a stordire le masse e mantenere docili gli schiavi del sistema. Allo stesso tempo, però, la serie riporta l’attenzione sulle idee che chiamano alla distruzione del sistema stesso — e stavolta non c’è nemmeno bisogno di mandare bombe in giro per farsele pubblicare.

È lo stesso meccanismo di Fight Club: l’industria dell’intrattenimento non ha mai avuto problemi a fagocitare anche le istanze più radicali, incendiarie e anti-sistema, garantendo loro un’enorme diffusione in forma digeribile e pop. Ma non le neutralizza, se per neutralizzazione intendiamo l’inibizione degli effetti sul reale di un certo immaginario finzionale o narrativo.

Daniele Zinni, recensendo Manhunt — che in otto densissime puntate racconta la storia della cattura di Unabomber — paventa il rischio che anche Kaczynski finisca per trasformarsi in un “simbolo cretino” come Guy Fawkes, banalizzato, assunto a nuovo alfiere di una lotta raffazzonata contro l’ordine costituito. Può darsi. Ma prima di una sua eventuale trasformazione in icona pop, dobbiamo chiederci quale sia l’eredità che Kaczynski-Unabomber-FreedomClub ha già trasmesso alla nostra cultura — un’eredità che, come abbiamo visto, scorre sotterranea in Fight Club, in Matrix, nel cospirazionismo, nella paranoia della sorveglianza di massa e nell’incubo dell’apocalisse imminente.

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1101960415_400L’epopea di Kaczynski si può leggere in molti modi: laureato ad Harvard a 20 anni e professore di matematica alla Berkeley prima di darsi alla macchia, è un genio del male trasformato in pluri-omicida dalla propria stessa abnorme intelligenza; oppure è un eroe tragico che lotta contro una società che non può cambiare, terrorista al servizio della rivoluzione (come V); oppure, ancora, è un disadattato traumatizzato dalle prime esperienze sociali, tradito da tutti, accecato dal risentimento per la propria percepita anormalità, chiuso in se stesso, incapace di provare empatia, che costruisce una filosofia intera solo per vendicarsi della società che l’ha emarginato e sfogare la propria rabbia.

Queste interpretazioni non si escludono necessariamente l’una con l’altra, ma l’immagine che rimane alla fine di Manhunt è soprattutto l’ultima: Ted Kaczynski — interpretato magistralmente da Paul Bettany — è un freddo serial killer con un quoziente intellettivo spropositato, certo, ma in fondo è soprattutto un uomo fragile che avrebbe voluto soltanto una vita normale: amare ed essere amato. La sua condanna della società industriale potrà anche essere giusta — e lo stesso profiler che gli dà la caccia, interpretato un po’ meno magistralmente da Sam Worthington, finisce per crederci — ma quello che ha fatto l’ha fatto in primis per il proprio vissuto personale.

Kaczynski sperava che con la diffusione su larga scala del suo manifesto avrebbe gettato i semi di una rivolta anti-tecnologica generalizzata. Vent’anni dopo, su questo fronte non sembra aver raccolto molti risultati, e i passaggi del manifesto in cui descrive la dipendenza dell’uomo dalla tecnologia utilizzando come esempio le automobili fanno quasi sorridere nell’era degli smartphone e dell’iper-connessione. Ma, proprio per questo, la sua disamina dell’industrializzazione resta attualissima: dalla distruzione dell’ecosistema alla disoccupazione tecnologica, dalla sovrappopolazione all’ingegneria genetica, Kaczynski snocciola con spietata lucidità temi di dibattito che erano attuali nel 1995 e lo saranno ancora per svariati decenni.

Il messaggio politico più profondo di Kaczynski, però, non è quello contro “le macchine.” Non è un caso se gran parte de La società industriale e il suo futuro si trova copiata parola per parola nel manifesto — molto più lungo e verboso: 1500 pagine di copia/incolla vari — di un altro pluri-omicida — molto più letale e meno paziente: Anders Breivik, il fondamentalista islamofobo norvegese che nel luglio 2011 uccise 77 persone in due attacchi terroristici coordinati a Oslo e Utoya. L’obiettivo principale di Breivik erano i partecipanti a una convention della giovanile del partito laburista, colpevoli di favorire “l’islamizzazione dell’Europa.”

Chi legga per la prima volta il manifesto di Kaczynski, magari conoscendo approssimativamente la sua storia e immaginandoselo come un fricchettone un po’ matto che manda pacchi bomba a chi vuole tagliare le foreste, rimane sorpreso nel trovare, prima di qualsiasi argomentazione neo-luddista, una lunga tirata contro la “sinistra” e la dittatura del “politicamente corretto,” che oggi potrebbe trovare tranquillamente posto su Breitbart o sul Foglio. Nemico immaginario preferito delle destre reazionarie da 25 anni, la battaglia contro il politicamente corretto è stata anche una delle chiavi della vittoria di Donald Trump.

Kaczynski odia tanto la sinistra perché è incapace di concepire qualsiasi forma di altruismo: chi si impegna per difendere un gruppo più “debole” a cui non appartiene lo fa, secondo la sua visione, per un distorto bisogno di sentirsi potente. L’uomo di sinistra ha bassa autostima, tendenze depressive, sensi di colpa, disfattismo, masochismo, odia la forza e il successo — Kaczynski, viceversa, mostra un genuino orrore per qualsiasi forma di debolezza e una vera e propria ossessione per la normatività. La sua idea di libertà è la libertà di un’idealizzata umanità primitiva, organizzata in piccoli nuclei patriarcali di cacciatori-raccoglitori. La tecnologia non è da distruggere perché rende schiavi gli uomini, ma perché permette ai deboli di sopravvivere, sovvertendo la naturale legge della sopravvivenza del più forte. Kaczynski non odia la tecnologia: odia l’uomo.

Sotto questa luce, totalmente assente dal ritratto di Discovery Channel (per fortuna, forse), la personalità di Unabomber risulta molto meno eccentrica, molto meno eroica, anzi: inquietantemente a proprio agio nella contemporaneità. È la sua eredità nascosta: la si ritrova nella sotto-cultura prepper o survivalista, che negli Stati Uniti spesso si intreccia a doppio filo con frange di destra anti-sistema; in personaggi come il cospirazionista David Crowley, impegnato nella realizzazione di un film “sul prossimo collasso della società sotto legge marziale” e morto in un apparente caso omicidio-suicidio, su cui ovviamente sono state ricamate altre teorie del complotto; o ancora, nei movimenti per la difesa dei “diritti maschili” che si oppongono a quella che percepiscono come una de-mascolinizzazione della società, e che attraverso gli scritti di Robert Bly, uno dei loro ideologi più in vista, hanno dato voce — indovinate un po’ — ai discorsi di Tyler Durden, mentre il loro documentario di riferimento prende il nome dalla metafora della pillola rossa di Matrix, quella che serve a vedere il mondo così com’è. Il cerchio si chiude.

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Questo brodo di cultura reazionaria è più in fermento che mai: ed è esplosivo. “La società industriale sembra sul punto di entrare in un periodo di intenso stress,” scrive Kaczynski al paragrafo 150 del manifesto. “Alienazione, bassa autostima, depressione, ostilità, ribellione; bambini che non vogliono studiare, gang giovanili, abuso di droghe, stupro, pedofilia, altri crimini, sesso non protetto, gravidanze adolescenziali, crescita della popolazione, corruzione politica, odio razziale, rivalità etnica, aspro conflitto ideologico, estremismo politico, terrorismo, sabotaggio, gruppi anti-governativi, gruppi d’odio. Tutti questi elementi minacciano la sopravvivenza stessa del sistema.” Ecco, forse non c’è tanto il rischio di una banalizzazione dell’intelligenza di Kaczynski attraverso la cultura pop, né di una sua emulazione letterale: il problema è quanto le sue idee tossiche siano entrate in sintonia con il nuovo millennio.


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