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Visitabile fino al 4 marzo, la mostra ripercorre 40 anni di attività del fotografo, tra guerre e disordini sociali, alla ricerca della Memoria.

Venerdì è stata aperta al pubblico la mostra-retrospettiva di James Nachtwey a Palazzo Reale, visitabile fino al 4 marzo 2018. La mostra, curata dallo stesso Nachtwey e da Roberto Koch, si articola in 9 sale e 19 sezioni che per tema, evento o nazione, narrano di guerre e disordini sociali in un arco di circa 40 anni di attività del fotografo. Si tratta della prima tappa di una mostra che farà il giro del mondo.

James Nachtwey è considerato da molti l’erede di Robert Capa, colui che pronunciò la famosa frase “se la foto non è buona, vuol dire che non eri abbastanza vicino.” Un’affermazione che tradisce uno spirito certamente meno aristocratico e intellettuale rispetto al collega Henri-Cartier Bresson, che puntava alla formalità del momento decisivo, in cui convergono mente, occhio e cuore. Ma Nachtwey è nato giusto un anno dopo che Capa e Cartier Bresson fondassero l’agenzia Magnum.

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In una delle prime manifestazioni della seconda Intifada palestinese, i dimostranti lanciano pietre e molotov contro i soldati, che sparano munizioni vere e proiettili di gomma, a volte letali. Cisgiordania, Ramallah, 2000. © James Nachtwey/Contrasto

La prima sala — con fotografie a colori — è potente, potentissima, nella sua estrema semplicità e chiarezza. Non vi è retorica eccessiva o elogio del dramma, ma una giusta e onesta premessa di quello che le sale successive riservano allo spettatore. Troviamo un prelato a bordo di un elicottero militare, un uomo che disegna nella sua postura una croce in zone montuose, molotov che ardono, un uomo che scava tra le macerie, due soldati accasciati su un muretto.

La torre sud del World Trade Center collassa in seguito allo schianto dell’aereo. USA, New York, 2001. © James Nachtwey/Contrasto
La torre sud del World Trade Center collassa in seguito allo schianto dell’aereo. USA, New York, 2001. © James Nachtwey/Contrasto

Ad accomunare tutte le foto esposte sono le grandi dimensioni e una scarsa presenza di persone per singola foto. Raramente si trovano folle; l’intimità dei fatti è raccontata attraverso la presenza di poche persone, tra cui Nachtwey stesso. La sua presenza indiscreta racconta il paesaggio in cui gli altri personaggi vivono e agiscono in nome — o contro — quella che il fotografo definisce l’agenda politica.

Una madre veglia sul figlio. Sudan, Darfur, 2003. © James Nachtwey/Contrasto
Una madre veglia sul figlio. Sudan, Darfur, 2003. © James Nachtwey/Contrasto

Ma c’è anche un mistero che avvolge tutta la mostra, un non detto che tiene il fiato sospeso in tutte le sale. Provo a capirlo durante il primo giro, ma non riesco a trovarlo. Durante la visita, gli addetti mi ricordano la Lectio Magistralis dell’autore nella sala conferenze di Palazzo Reale. Penso che ascoltando l’autore potrei ricevere qualche informazione o dettaglio in più che mi aiuti a decifrare il suo stile.

La Lectio Magistralis era rivolta in particolare agli studenti, ma ad essere impreparato questa volta era il professore, e la giustifica è stata firmata dal curatore Roberto Koch, con la motivazione che l’eccessivo carico di lavoro di preparazione e allestimento della mostra non hanno permesso al fotografo di prepararsi a dovere. Peccato, c’erano tanti giovani che per una volta volevano ascoltare un fotografo e non scrollarlo su uno schermo. Ma così è andata.

Alle domande dell’intervista, Nachtwey ha risposto in maniera lenta, scandendo con intervalli di lunghe pause le proprie frasi. Le risposte forse le meditava, o più probabilmente sceglieva con una dose di casualità ricordi personali e opinioni tra quelli che possono affiorare a un uomo che di guerre e di personaggi che hanno fatto la storia ne ha incontrati tanti.

“Corro verso ciò da cui tutti scappano.”

Il modo di parlare di Nachtwey mi ha dato una chiave di lettura in più per tornare di nuovo tra le sale, per fare un ulteriore giro alla ricerca di quello che ancora non ero riuscito a comprendere. “Memoria” è il titolo della mostra, ed è qui che bisogna tornare.

La battaglia per il controllo di Mostar è avvenuta di casa in casa, di stanza in stanza, tra vicini. Una camera da letto è diventata un campo di battaglia. Bosnia-Erzegovina, Mostar, 1993. © James Nachtwey/Contrasto
La battaglia per il controllo di Mostar è avvenuta di casa in casa, di stanza in stanza, tra vicini. Una camera da letto è diventata un campo di battaglia. Bosnia-Erzegovina, Mostar, 1993. © James Nachtwey/Contrasto

Le immagini non parlano di guerra e violenza, ma prima di tutto di fatti reali, che è bene ricordare attraverso la loro collocazione geografica o parole chiave.

Muro di Berlino, Balcani, Cecenia, Fame, Darfur, Romania, Ruanda, Sudafrica, 11 Settembre, Afghanistan, Iraq, Medicina di guerra, Disastri naturali, Inquinamento in Est Europa, Homeless in Indonesia, Agente arancio, Eroina, Delitto e castigo in Usa, Aids e Tbc, Esodo: sono le 19 parole chiave delle sezioni della mostra, che possono permettere a chiunque di fare un ripasso attraverso una memoria condivisa e tormentata.