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Ci sono tanti immigrati a Londra. Nel 2015, quasi l’undici percento delle persone che abitavano nella città erano nate da qualche altra parte in Europa, un altro venticinque percento veniva da un paese fuori dalla Ue. In tutto, più di tre milioni di persone che vivono a Londra sono nate all’estero.

L’unica foto che ho di me e Marina è stata scattata alla sua festa d’addio, l’anno scorso. Stiamo sorridendo, guardando verso la macchinetta fotografica, circondate da cinque o sei persone; abbiamo entrambe una birra in mano, entrambe sappiamo che è probabilmente l’ultima volta che ci vedremo. È un venerdì sera dei primi di settembre, l’aria è ancora tiepida dopo le sette, e il buio non cala prima delle dieci. La gente è all’esterno del Bonds, un posh pub a Mayfair, Londra, e chiacchiera in una decina di lingue diverse, fuma tabacco comprato in Spagna e Polonia. Alcuni di loro sono venuti qui a salutare un’amica, per poi andare avanti con le proprie vite. La maggior parte di loro ci è abituata; dire addio fa parte della loro vita a Londra. Dovrei esserci abituata anch’io, eppure ho gli occhi lucidi quando abbraccio Marina per l’ultima volta prima di andarmene.

Ai giornali scandalistici, nel Regno Unito, piace spaventare i lettori con i numeri dell’immigrazione. L’anno scorso, il Daily Express ha scritto che gli immigrati costituiranno “metà di Londra” entro i prossimi vent’anni (per poi parlare dei problemi che ciò causerà all’NHS, il servizio sanitario nazionale). La verità è che potrebbe anche avere ragione. Ci sono tanti immigrati a Londra. Nel 2015, quasi l’undici percento delle persone che abitavano qui erano nate da qualche altra parte in Europa; un altro venticinque percento veniva da un paese fuori dalla Ue (ma circa la metà di loro ha poi acquisito la cittadinanza inglese). In tutto, più di tre milioni di persone che vivono a Londra sono nate all’estero – e molti di loro sono ora cittadini inglesi. Ma mentre il Daily Mail e l’Express li dipingono come pigri e sfruttatori degli assegni sociali, c’è un’intera categoria di stranieri che viene totalmente ignorata dai tabloid. È una piccolissima parte di Londra e del Regno Unito, ma c’è.

Sono giovani, quasi tutti fra i venti e i trent’anni. Lavorano, fanno festa, si divertono. Poi tornano alle loro stanze singole negli appartamenti condivisi. Quando li rivedi, ti stanno servendo il tuo warm soya latte, o ti stanno dando il resto a una cassa, con un sorriso. Quando ti ringraziano e ti salutano, ti accorgi che parlano inglese con un accento: a volte è straniero, a volte è da un altro paese di madrelingua inglese.

Marina García Torres aveva ventitré anni e una laurea quando ha lasciato Madrid per trasferirsi a Londra, nel 2012. “Mi ci è voluta tutta l’estate per decidermi,” mi dice, “e per abituarmi all’idea che avrei vissuto a Londra entro metà ottobre.”

Nonostante una laurea in Amministrazione e Direzione Aziendale all’Università Carlos III, una delle più prestigiose nella capitale, Marina ha avuto delle difficoltà a trovare un lavoro nel suo settore. A Madrid, aveva accettato un impiego come ‘consulente aziendale’ (in pratica, come venditrice porta a porta) per una compagnia che vendeva corsi educazionali, anche se sapeva che non le sarebbe piaciuto. Le sue giornate consistevano nell’avvicinare potenziali clienti per strada. Sapeva che, se si fosse licenziata, avrebbe dovuto passare altri mesi a cercare qualcos’altro. Si è licenziata. Nel luglio 2012 – dieci mesi dopo essersi laureata – ha iniziato a lavorare da Zara, il colosso di moda spagnolo, in un centro commerciale. “Ho mentito nel curriculum, e ho scritto che stavo ancora studiando,” mi racconta. “Per noi laureati era difficile essere assunti in lavori dove una laurea era più uno svantaggio che un punto a favore.” Poi ha iniziato a pensare di trasferirsi all’estero. Era interessata a una specializzazione, in inglese, alla sua alma mater, ma non sapeva ancora l’inglese abbastanza bene. Facendo la commessa a Madrid, aveva pensato che a questo punto avrebbe potuto farlo anche a Londra. In quel modo, almeno, non si sarebbe vergognata del suo lavoro, come invece succedeva in Spagna. Così Marina ha fatto le valigie, mollato il suo ragazzo, e il 17 ottobre è arrivata a Londra, da sola.

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“È un po’ una cosa della serie ‘io contro il mondo’, è la grande avventura,” mi dice Daniel Zander, un ventiduenne di Adelaide, Australia. Lui non ha mai vissuto a Londra, e non intende farlo, anche se ne ha spesso parlato da quando lo conosco. Per un australiano della sua età, è abbastanza comune: “Non è che sia una cosa che ci si aspetta,” mi spiega, “ma per qualcuno fra i venticinque e i trent’anni, trasferirsi a Londra è normale.” Circa centotrentamila australiani vivono nel Regno Unito, molti di loro nella capitale. Marina ci aveva messo qualche mese a decidere di lasciare la Spagna, ma non sembra che gli australiani abbiano paura di spostarsi dall’altra parte del mondo per un po’. “Di solito fanno un visto per due anni, e poi vanno lì, bevono, fanno festa,” dice Daniel. Forse non ci si accorge di quanto comune sia finché non si cerca su Google ‘Australians in London’, e centinaia di gruppi, pagine, blog e associazioni spuntano fuori. La pagina Facebook Aussies in London ha quasi quarantamila iscritti, e posta di tutto – da eventi a consigli a, ovviamente, meme. E non è l’unica: il gruppo Italians in London ha più o meno lo stesso numero di iscritti.

Perché così tante persone si trasferiscono a Londra? La voglia di viaggiare (e vagare) dei giovani ha sempre ispirato scrittori e poeti, ma in questo caso, c’è qualcosa in più del semplice spirito di avventura.

Su siti e blog che spiegano come trasferirsi a Londra (ce ne sono decine), si può leggere come Londra sia, semplicemente, il centro del mondo. Se New York era la Grande Mela degli Yuppies, Londra l’ha sostituita nel cuore dei Millennials. Più volte Daniel mi ha informato che io vivo, appunto, al centro del mondo, e che nessun altro posto è importante quanto Londra. Nel 2014 (OK, prima della Brexit), un sondaggio condotto in 189 paesi ha mostrato che una persona su sei avrebbe voluto trasferirsi a Londra per lavorare. New York, con una su otto, era seconda.

It’s all about the vibe,” è l’atmosfera, Michalina Wrońska, soprannominata Misia, dice. Fa in fretta, però, anche a chiarire che Londra non è la sua destinazione finale. Misia ha ventisei anni, viene dalla Polonia, ha un master in Traduzione e vive a Londra da un anno. È una wanderluster autodichiarata: “Idealmente, non vorrei stare qui più di due o tre anni. Non riesco a stare ferma in un posto tanto a lungo.” Quando parla inglese, non ha un accento polacco, ma americano. Mi spiega che, prima di trasferirsi nel Regno Unito, ha passato quasi un anno a viaggiare negli Stati Uniti. “Sto ancora cercando di capire come tornarci,” mi spiega sorridendo. Nel frattempo, ha scelto Londra come casa. Parlando agli immigrati, qui a Londra, non è raro scoprire che molti di loro non staranno qui per sempre. Le persone vengono a Londra per tantissimi motivi – alcuni vogliono davvero rimanere qui, altri sono qui per studiare, altri ancora vogliono solo prendersi una pausa dalla loro vita a casa. “Se vai a chiedere, gli spagnoli ti diranno che vogliono tornare, che sono a Londra solo per un paio d’anni,” Marina mi racconta. Mi dice che l’alto tasso di disoccupazione fra i giovani e il bisogno di imparare l’inglese sono i principali fattori che spingono la gente a trasferirsi a Londra dalla Spagna. Spesso ho chiesto, a spagnoli arrivati a Londra da poco, perché fossero qui. La loro risposta è sempre stata, immancabilmente, un sorriso, un’alzata di spalle, e poi: “Perché tu sei qui?” Nel senso: “neanche tu riuscivi a trovare lavoro a casa tua, no?” Ma è anche un po’ per provare a se stessi cosa si è capaci di fare. Quando chiedo a Misia se ha mai pensato di fermarsi da qualche parte, lei mi risponde, “In realtà mi spaventa molto il pensiero che un giorno lo dovrò fare.”

Durante una conversazione a tarda notte con Daniel (tarda notte per lui, in Australia; l’una di pomeriggio per me, a Londra), quando stava pensando di prendere un anno di pausa fra la laurea e un lavoro serio, mi disse che voleva “soldi e anni”. Capivo la parte dei soldi (chi non ne vorebbe?), ma gli dovetti chiedere cosa intendeva con ‘anni’. “Voglio mettere in pausa la mia vita in Australia, vivere un’avventura, e poi tornare indietro e avere ventidue anni dopo essere stato via cinque anni, invece che averne ventisette,” mi rispose. “Beh, questo non lo puoi fare,” dissi io. Ma mi fece pensare.

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Una sera, qualche settimana dopo, stavo guardando degli episodi di Black Mirror, la serie distopica di Netflix ambientata in un futuro prossimo. Uno dei suoi episodi più ottimisti, “San Junipero”, racconta la storia di due donne che si incontrano in questa città (chiamata, appunto, San Junipero). Con lo svilupparsi della storia, si scopre che San Junipero è una realtà virtuale, dove la gente è giovane per sempre e tutto ciò che si fa è uscire, ballare e rimorchiare. Mi chiesi se Charlie Brooker, lo scrittore della serie, che ha studiato a Londra, si fosse ispirato alla capitale quando inventò San Junipero. Poi però mi venne anche in mente che quella è un’idea di Londra che può avere soltanto qualcuno che non ci ha mai vissuto, come Daniel. Lui, esattamente come molti di noi avevamo in mente, si sarebbe trasferito qui per un’avventura; è solo una volta arrivato che ti rendi conto che quello che hai non è un’avventura. È la tua vita, con quasi tutte le persone a cui vuoi bene a centinaia di chilometri di distanza, una valanga di documenti da preparare, una casa minuscola e condivisa con troppe persone, e un tempo atmosferico deprimente. È il centro del mondo, ma solo perché il posto in cui vivi diventa a mano a mano il centro del tuo mondo. Nelle prime settimane a Londra di Marina, quando non aveva ancora trovato un lavoro, suo padre la riassicurava, dicendo che doveva essere fiera di sé. Non importava se non sarebbe riuscita a trovare un lavoro: aveva lasciato tutto ciò che rendeva la sua vita comoda e rassicurante, ed aveva iniziato qualcosa di nuovo in una città di pazzi, in cui era completamente sola. La vera avventura non è Londra – è andare via.

Ho conosciuto Marina al lavoro, a fine settembre 2015. Era il suo primo giorno, ma sembrava troppo sicura di sé per essere una che aveva appena iniziato. Più tardi, mi dissero che aveva lavorato in quello stesso negozio per quasi tre anni prima di tornare a Madrid il luglio precedente. Adesso era tornata, e stava guardando in giro per il reparto, come si fa dopo una vacanza, cercando di riconoscere le varie collezioni. “Sono così confusa,” sospirò, ma non impiegò molto per riabituarsi al lavoro. Recentemente mi ha detto che, nei due mesi che aveva passato a Madrid, aveva riflettuto a lungo se era il caso di tornare a Londra o no. Questa volta decidere era ancora più difficile di qualche anno prima. Si sentiva insoddisfatta – aveva lavorato in un negozio di vestiti per molto tempo, e le sembrava impossibile trovare un lavoro che fosse compatibile coi suoi studi – a Londra o a Madrid. Da anni pensava al master in inglese alla Carlos III. Aveva lasciato il ragazzo con cui viveva a Londra – quindi era senza casa e senza lavoro, e avrebbe dovuto ricominciare da capo, di nuovo. Questa volta, però, aveva degli amici che la stavano aspettando. “Volevo godermi Londra insieme a loro,” mi dice, “e volevo provarci un’ultima volta,” per non avere rimpianti. Così, ancora una volta, aveva fatto le valigie ed era partita.

Londra è una città particolare. Con la campagna del sindaco, Sadiq Khan, chiamata London is open – una serie di video postati sui social media e altre iniziative riguardo alla diversità e all’inclusività della città – è facile sentirsi londinesi, eppure è ancora difficile chiamare Londra la propria casa. Quando chiedo a Misia come si sente a riguardo, lei sorride. “Onestamente – non penso di essermici ancora abituata, perché vengo da una piccola cittadina e sono una persona molto introversa. Quindi è un po’ metà e metà, dipende dalla stagione.”

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Quando ci incontriamo, è uno dei primi giorni di primavera, il periodo in cui i londinesi si sdraiano su qualsiasi spazio verde che trovano per godersi il sole. Siamo a Cavendish Square, un parchetto dietro Oxford Street; la gente intorno a noi sta leggendo libri, chiacchierando, ascoltando musica. Ci sono impiegati e commessi in pausa pranzo, qualche famiglia. Ancora una volta, l’inglese non è l’unica lingua che si sente. “È un rapporto di amore e odio, quello fra Londra e me,” continua Misia. “Alcuni giorni c’è il sole, ed è bellissimo, e penso a tutte le cose che nella mia città natale non potrei fare. Ma altri giorni mi sento stufa di tutto questo rumore dappertutto – persone, macchine ovunque – e non la sopporto.” Quando era arrivata a Londra da poco più di una settimana, Misia venne chiamata per un colloquio di lavoro in centro. Quando uscì dalla stazione di Oxford Circus, era in anticipo, e non sapeva cosa fare – e così rimase lì, per strada. Milioni di persone sembravano passarle affianco. Ma in quel momento, si sentì sola nel mondo. Iniziò a piangere. “Devo andare a casa,” pensò. “Questo è davvero troppo.” Il colloquio era per un lavoro come commessa – ma lei non voleva lavorare in un negozio, non sapeva cos’avrebbe fatto della sua vita. Rimase lì a piangere per un po’, ma quando arrivò l’ora del colloquio, si riprese e ci andò. Londra ti fa piangere, molto e spesso, ma c’è solo una cosa che puoi fare dopo: asciugarti le lacrime, lavarti il viso, e andare avanti.

“Penso che la prima volta che non ho pianto tornando a Londra dalle vacanze sia stato il momento in cui ho iniziato a sentire che Londra era casa mia,” mi dice Marina. “Mi ci sono voluti quasi due anni.” I suoi primi mesi a Londra furono duri. La casa in cui viveva era lurida, la condivideva con altri otto sconosciuti, e non aveva un salotto. Il lavandino nella cucina era costantemente pieno di piatti sporchi e posate. Spesso, Marina andava a dormire con la fame, perché non voleva né cucinare né mangiare in quel posto. Passava la maggior parte del suo tempo nella sua camera, che era così piccola che, quando stendeva la biancheria sul filo che si allungava fra le due pareti, non c’era spazio perché lei stesse in piedi. Saltare i pasti, lo stress e la solitudine le fecero perdere molto peso velocemente. “Mi ricordo la reazione di mia mamma quando mi vide in costume, la prima estate dopo che mi ero trasferita.” Alla fine trovò un lavoro part-time, che non le lasciava molti soldi per cose che non fossero l’affitto e la spesa. Nel suo tempo libero, andava a Westfield, un centro commerciale a Stratford, Londra est, e guardava le vetrine dei negozi. Non poteva permettersi i vestiti che vedeva, ma non usciva neanche molto, quindi non ne aveva bisogno.

Qualcuno dice di essere venuto a Londra perché è una città che ha qualcosa per tutti i tipi di persona, ma io dico che Londra non è per tutti. Ci vogliono lacrime e sudore – e soldi, e tempo – per conoscere questa città e il modo in cui funziona.

Accoglie tutti, ma non si ferma e non rallenta per nessuno. Un report del 2014 di The Forum, un’associazione che si occupa dei bisogni e dell’integrazione degli immigrati, ha mostrato che il 58% dei rifugiati e degli immigrati a Londra indica la solitudine come il problema maggiore. Quello che Misia e Marina mi hanno raccontato è semplicemente la loro versione di un’esperienza vissuta da quasi tutti quelli che hanno vissuto a Londra. Quei primi mesi sono una specie di rito di passaggio, un battesimo del fuoco per essere indipendenti: un po’ come il rituale aborigeno del walkabout, in cui i maschi adolescenti lasciano le loro famiglie e vanno a vivere nella natura, in solitudine, per qualche mese. Se sopravvivi, sei un uomo.

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Alla fine, dopo quattro anni, Marina ha lasciato Londra il 6 settembre 2016. Si ricorda tutte le date, come quasi tutti noi. Io mi sono trasferita a Londra il 7 ottobre 2014 – ho provato a chiedere ad altri, e mi hanno tutti risposto come se stessi chiedendo loro la data del loro compleanno. Probabilmente è perché lo è, in un certo senso.

L’ultimo anno che ha passato qui è stato il migliore, ma lei dice che le è sembrato così proprio perché sapeva che se ne sarebbe andata presto. “I primi due anni ero ossessionata con l’idea di quando sarei tornata a vivere in Spagna,” mi racconta. “Pensavo che sarebbe stato il giorno migliore della mia vita, mi immaginavo arrivare in aeroporto, con la mia famiglia ed i miei amici che mi aspettavano. Ma in realtà, quando quel giorno è arrivato davvero e io mi sono trovata in aereo, ho capito che non sarebbe stato il migliore della mia vita, perché mi sarebbe mancata ogni singola cosa che facevo a Londra, ogni persona che avevo conosciuto, anche gente che avevo incontrato per brevi periodi, ma che in qualche modo aveva reso la mia vita più felice.”

Come in tutte le grandi città, la gente va e viene. La libertà di movimento, una lingua che quasi tutti parlano, anni e anni di egemonia culturali hanno reso Londra la preferita da tutti. Non importa quello che dicono i giornali – la Brexit non impedirà alla gente di viaggiare e fermarsi a Londra per un po’. Ho detto addio a decine di persone; ho imparato che ogni persona che incontro farà parte della mia vita solo per breve periodo – un giorno, uno di noi cambierà lavoro o si trasferirà, e sarà la fine. Alcune persone vengono qui per mettere la propria vita ‘in pausa’, pronti a ricominciarla quando tornano indietro; ma non sanno che stanno comunque imparando, stanno comunque crescendo.

“Ci sono persone che facevano parte della mia vita, prima, che non faranno parte del mio futuro,” dice Marina. Aggiunge che, dopo essere stato via, dai più valore a certe cose: “il tempo passato con tuo papà, le conversazioni con la tua migliore amica.” I miei genitori, che hanno vissuto nella loro città natale per tutta la loro vita, non sanno cosa significhi tutto questo. Ma sono sicura che molte mamme e papà, in giro per il mondo, hanno notato la stessa cosa. I loro figli vagabondi sono lontani per la maggior parte del tempo, in una strana città chiamata Londra. Prima che partissero, erano già distanti. Ora al telefono non dicono molto. Ma quando torneranno sembra che non siano mai stati così vicini.


L’articolo è la traduzione di una versione originale titolata “On Hold” e scritta in inglese, pubblicata sul blog di Silvia.