The home of my eyes è un progetto fotografico che ritrae le varie etnie dell’Azerbaijan, interrogandosi sul concetto di identità culturale e di “casa.”
Immaginiamoci la scena: siamo a Venezia e stiamo pascolando in mezzo alle sale del Museo Correr, di fronte a San Marco: troviamo Pietà, Crocifissioni, battaglie, aureole, Madonne con bambino, ori, santi, insomma gran parte dell’immaginario dell’arte del Trecento e del Quattrocento.
L’atmosfera è abbastanza lugubre, quasi fastidiosa in certi spazi, opulenta, ma decisamente mistica. La luce è un po’ giallognola, tenue. Ci interroghiamo sui volti dei personaggi ritratti, ci chiediamo quali tra questi volti sia una rappresentazione dal vero e quali, invece, siano soltanto astrazioni serafiche del pittore.
La domanda rimane senza risposta e, forse, è anche questo alone di mistero a permetterci di respirare a pieni polmoni l’odore dei colori e la religiosità intrisa in queste rappresentazioni. Salendo le scale ci ritroviamo davanti all’ennesima carrellata di arte medievale. Lo spazio si chiude, l’aria è più rarefatta, sentiamo in lontananza le litanie di qualche disperato che implora Dio affinché gli conceda la Grazia. Siamo sull’orlo dell’Abisso, iniziamo a pensare che, forse, l’unica possibilità che ci rimane per uscire da questo vortice di cristianità medievale è quella di tirare fuori dalla borsa la bottiglietta d’acqua che ci accompagna e versarcela addosso per simulare un battesimo improvvisato. Le gambe si fermano, l’inquadratura si apre — tipo Mommy — la macchina da presa ci riprende da dietro, si sposta in avanti e in un breve piano sequenza ci supera per portarci nella sala delle Quattro Porte, ma non vediamo che cosa c’è nella stanza. Cambio di scena.
Siamo a Tokyo e il Principe Hitachi, secondogenito dell’Imperatore Showa, è prossimo a consegnare il Premio Imperiale a cinque artisti — artisti che sono riusciti ad eccellere nei loro rispettivi campi: pittura, scultura, architettura, musica, film/teatro. Niente petali di fiore di ciliegio che svolazzano per aria, siamo ad ottobre, fa anche un discreto freddo: la luce è bianca, come l’albume di un uovo. Il Premio Imperiale è una sorta di Nobel del mondo dell’Arte e a ottobre di quest’anno il Principe Hitachi ha consegnato il Premio, per la categoria pittura, a Shirin Neshat, artista iraniana che da anni lavora attraverso la fotografia e l’arte visiva per sottolineare il significato e il ruolo della donna in Iran. Primo piano di Shirin Neshat che ringrazia umilmente, le si riempiono gli occhi di lacrime. Veniamo a sapere che Shirin ha appena presentato al Festival del Cinema di Venezia il suo ultimo lungometraggio: Looking for Oum Kulthum. Stacco.
Siamo di nuovo a Venezia, al Museo Correr, sulla soglia che ci conduce alla sala delle Quattro Porte. Percepiamo l’odore della sabbia e del sangue sulla pelle e la calura persiana nelle ossa. In lontananza l’eco di una cultura secolare che, oggi, lotta per resistere alle contraddizioni del presente, per resistere all’innominabile attuale. La stanza è tappezzata da 55 ritratti fotografici. Capiamo subito che siamo fuori dai deliri agostiniani: i ritratti sono dal vivo e leggiamo le idiosincrasie di quei personaggi, la loro biografia, le loro paure, con la stessa limpidezza con la quale riusciamo a capire i testi di Lou Reed.
Il progetto è The home of my eyes, risale al 2015 e ritrae le varie popolazioni dell’Azerbaijan — paese a nord dell’Iran. Shirin ha costruito questa serie, tutta in bianco e nero, come “il ritratto di un paese che per moltissimo tempo è stato un crocevia di tante etnie, religioni e lingue differenti.” Ci troviamo davanti a soggetti profondamente eterogenei, sia per età che per etnia, soggetti ripresi frontalmente, da vicino; è come se li avessimo di fronte in carne e ossa.
L’unico modo per tenere insieme questa “differenza,” che attrae e respinge allo stesso tempo, è posizionare tutti i soggetti in pose simili, vestiti di nero, su sfondo scuro; il tutto incorniciato dalle particolari posizioni delle mani, che qui riprendono volutamente l’arte cristiana in cui ci siamo appena imbattuti — in particolare la citazione è da riferirsi a El Greco (anche se siamo fuori dall’orizzonte temporale delle opere esposte al Correr).
Shirin ha costruito questa serie, tutta in bianco e nero, come “il ritratto di un paese che per moltissimo tempo è stato un crocevia di tante etnie, religioni e lingue differenti.”
Flashback: ci troviamo in Azerbaijan, più o meno tra il 2014 e il 2015, e Neshat respira gli stessi odori che sentiva da bambina, in Iran, a Qazvin. Questa terra le ricorda l’infanzia, la sua terra, i suoi profumi e i suoi problemi sociali, culturali ed economici. Viaggia per tutto il paese incontrando la gente che fotograferà; entra in quel mondo fatto di disperati e sognatori chiedendo che cosa per loro significhi “casa.” Il punto è l’identità culturale: che cos’è? Punto di vista interno: per alcuni di “loro” “casa” è un po’ come “la sensazione di avere legami”; per altri, invece è qualcosa di ancor più radicale, è rifiutare un’offerta di lavoro, oggi, perché “non me la sono sentita di andare,” dove? “Altrove” rispetto a dove ci si trova, a dove si è cresciuti, dove si ha amato e sofferto: casa.
Shirin Neshat, come in altri lavori fotografici, lavora le stampe su gelatina d’argento, e sopra imprime testi in inchiostro. I testi di questa serie sono un mash-up tra le risposte dei soggetti ritratti e alcuni passaggi delle poesie di Nizami Ganjavi, un poeta iraniano che visse nel XII secolo in quello che oggi chiamiamo Azerbaijan. Il progetto è l’allegoria di un paese e di uomini che si incarnano nel corso storico, che siano essi imperituri eroi o, più semplicemente, dei sopravvissuti della storia. Shirin parte dall’Io, dalla propria vita, impressioni e reminiscenze infantili, per arrivare ad un corale e transcategoriale Noi.
“Ho cercato di tradurre in maniera poetica le mie emozioni, senza essere didattica. Vorrei che arrivassero a tutti, che appartenessero a me, ma non solo a me.”
Lentamente riacquistiamo la capacità di camminare e riprendiamo coscienza di noi stessi, siamo ancora nel Museo. Ci giriamo e ci spostiamo nella stanza accanto: qui viene proiettato continuativamente un video, Roja (2016), che è uno dei tre lavori che compongono Dreamers: una trilogia incentrata sull’analisi dei sogni e delle paure che albergano nell’inconscio — quello di Shirin. Nel video siamo all’interno dei deliri onirici di Roja, interpretata dalla giornalista Roma Heydarpour, che riflette sulla nostalgia della propria casa natale — come Shirin, del resto, che è cittadina del mondo, apolide, divisa tra Oriente e Occidente — ammesso che esistano tali categorie — tra Qazvin e Nuova York. Qui la contraddizione, la frizione, la tensione tra amore e paura: da un lato gli Stati Uniti, un paese che l’ha accolta e che però vive nel costante e lacerante terrore dell’Iran, la terra dove Shirin ha visto gli albori del giorno per la prima volta.
Ennesimo stacco: siamo fuori dal Museo Correr, in piazza San Marco. Qualche piccione scagazza sulla folla di turisti ingombranti che freneticamente si scannano per un pezzo di pizza surgelata. Ci avviciniamo al campanile della piazza, lo superiamo, arriviamo a San Zaccaria, la passeggiata che conduce ai Giardini e all’Arsenale. Da questa prospettiva vediamo il mare: un mare che, nel corso della storia, soprattutto dalla prospettiva di Venezia, è stato luogo di incontri tra culture, etnie, linguaggi ed esperienze di vita. Shirin Neshat nelle proprie opere ricerca quel mare, quella mediazione tra gli opposti; opposti che, in fin dei conti, ci siamo costruiti noi con le nostre paure, le nostre insicurezze e la nostra cupidigia. Shirin calca la mano su questo punto: la sua sì, è certamente una prospettiva egotica, parte da se stessa, dal proprio vissuto, ma attraverso di esso può aprirsi ad un ventaglio di possibilità — quelle foto “non sono autobiografiche, ma personali sì. Sono sul mio rapporto col mondo, con me che cerco me stessa”.
Credo che Shirin Neshat sia la più grande artista iraniana, e una delle maggiori nel mondo. Non solo perché racconta il mondo femminile nell’Iran, il martirio, il terrorismo, tutti i temi caldi di oggi, in un certo senso pop; ma la potenza estetica dei suoi lavori risiede nella profonda sincerità con la quale ammette le proprie debolezze umane, le proprie fragilità. Fragilità e manchevolezze che poi, a ben guardare, sono quelle di tutti. Stacco: una nave da crociera barrisce attraversando l’inquadratura e il modo in cui i turisti agitano le mani ricorda i quadri di El Greco.
Tutte le foto della serie: Courtesy Written Art Foundation, Frankfurt am Main, Germany
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