Di polveri, polveroni e malinconie: intervista agli Amari

“Polverone è un disco cupo: arrivavamo da quattro anni di pausa e ci era tornata voglia di suonare, ma ci guardavamo intorno ed era cambiato tutto.”

Di polveri, polveroni e malinconie: intervista agli Amari

Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Pasta degli Amari, per capire come si fa a fare un disco come Polverone, che cita Ken il Guerriero ma che risulta anche così triste, così cupo.

Classificare gli Amari, gruppo storico di Udine in attività dal 1997, è praticamente impossibile. Se le origini dei fondatori, Pasta e Dariella, pongono le radici del loro sound profondamente nell’hip hop italiano, gli Amari negli anni hanno fatto tanta elettronica, ma anche vero e proprio indie rock, con chitarra e batteria. Ma nella loro formula originale c’è tanto di quel sound che oggi definisce il pop “sbagliato,” disagiato, italiano. Polverone, il loro nuovo disco, è per certi versi è un ritorno alle origini, vent’anni dopo, ma che non rinnega la ricchissima storia musicale del gruppo. Questo venerdì aprono il tour al Magnolia, sul palco di wow! – roba fresca a Milano.

Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Pasta per capire meglio come si fa a fare un disco che cita Ken il Guerriero ma che risulta così triste, così cupo. Ma che alla fine è anche divertente.

È impossibile non considerarvi padri spirituali, o precursori, del “pop sbagliato” che ha riacceso la scena indie italiana. Siete arrivati primi o siete arrivati in anticipo?

Siamo arrivati in anticipo, e ci siamo arrivati per caso, ovviamente. Non c’era stato nessun tipo di ricerca — o meglio, c’è stata la nostra ricerca musicale personale, ma arrivare come siamo arrivati al brodo primordiale dell’indie italiano è stato un puro caso. Una delle tappe del nostro percorso musicale, direi.

Ve lo chiedo perché uno degli aspetti piú interessanti della vostra discografia secondo me è quello che nel 2013 tanti avevano inquadrato come “svolta cantautoriale,” ma che oggi è piú evidentemente un altro capitolo di un percorso sperimentale. Come siete tornati al vostro hip hop strano di Polverone?

Hai usato la parola giusta: è sperimentale. Il nostro percorso non è mai stato una linea retta, è sempre stato uno zig-zag. Ogni tanto ci è piaciuto sperimentare, ogni tanto ci è piaciuto flirtare con il pop, ogni tanto ci è piaciuto mettere un milione di suoni per canzone, e in altri dischi ne abbiamo messi quattro. Non è mai stato legato a quello che andava al momento, è sempre stato un viaggio nostro.

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In Polverone c’è tanto umorismo — da Kenshiro ai documentari sullo spazio — ma alla fine la sensazione principale è che questo sia un disco abbastanza cupo. Divertito, ma cupo.

Assolutamente sì: Polverone è un disco dark. La copertina è volutamente fuorviante, col suo rosa innocuo, ma in realtà doveva essere nero, o al massimo grigio scuro. Ma alla fine già il titolo ti fa pensare al grigiume della polvere. È un disco cupo perché arrivavamo da quattro anni di pausa e ci era tornata voglia di suonare, ma ci guardavamo intorno ed era cambiato tutto — e anche noi eravamo completamente cambiati.

Quindi è una cupezza dettata da un certo smarrimento iniziale, per capire quale fosse il nostro posto in questo circo. Abbiamo iniziato a suonare insieme facendo delle jam, senza pensare a quello che avrebbe voluto ascoltare il pubblico, o quale pubblico avrebbe apprezzato il disco – o se ci fosse ancora del tutto un pubblico per la nostra musica. L’abbiamo semplicemente fatto per il gusto di farlo, così di getto.

A proposito di backstory, nel disco – in mezzo a tanti pezzi super catchy– si fanno notare Italian smemorato e Telefonata con mia mamma, che invece sono particolarmente strane. Raccontami da dove vengono fuori queste due tracce.

Abbiamo sempre avuto il trip di fare pezzi più o meno strumentali come momenti di decompressione, soprattutto quando dopo ci sono pezzi densi, in cui succedono mille cose e l’ascoltatore impazzisce ad ascoltarli. È un trip che probabilmente arriva dai nostri ascolti di Boards of Canada e altre cose anni Novanta, dove c’erano sempre pause di 30 secondi tra una traccia e l’altra, momenti in cui magari ti veniva raccontata una storia. È successo che ci siamo trovati con delle parti musicali di cui mancava ancora parte dei testi, ma sembravano proprio parte del disco, serviva ci fossero, come integrazione.

Al di là di quanto possano dire i testi e basta. E per caso, dopo un po’ di tempo che erano dentro i nostri hard disk siamo inciampati negli audio che poi abbiamo.

Telefonata con mia mamma è la madre del Dariella che fa questa chiamata. Avevano visto a distanza lo stesso programma — credo sia uno di quei programmi in seconda serata in cui arrivano i cantautori di una volta: reduci, pensionati, stanchi, quelle cose lì. Abbiamo registrato in vivavoce la telefonata, ma senza dirle nulla. E lui l’ha sostanzialmente aizzata per parlare di musica e cantautori italiani.

E viene fuori un discorso che è un discorso classico. Polverone, come tutti i nostri lavori in realtà, è un disco anche molto autoreferenziale, e questo è un discorso che tutti i musicisti si sono sentiti fare dalle famiglie, che ci vedono fare musica ma non capiscono cosa stiamo facendo. Aggiungici anche la distanza tra Udine e Milano, per cui ci sembrava la musica giusta e l’audio giusto da mettere insieme per raccontare questo lato degli Amari.

Non ci serviva un testo nostro per questo. Quella telefonata andava benissimo.

Italian smemorato invece racconta un altro tema del disco, che è quello del viaggio, ed è la registrazione di un personaggio misterioso di cui nemmeno noi sappiamo moltissimo, che ci è arrivata via WhatsApp per vie traverse, di questo ragazzo — credo napoletano? — che ha perso la bicicletta e tenta di comunicare con i suoi amici in questo inglese un po’ improvvisato. Non ti racconto tutti i dettagli, ma è una storia autobiografica, o perlomeno quasi autobiografica, che racconta un po’ l’epopea di quello che ci è successo in questi tre o quattro anni.

A proposito:Sono i ricordi che ci tengono per le palle.” La musica pop italiana è legata indissolubilmente a argomenti romantici e giovanilistici. I vostri testi riflettono questi temi, ma c’è anche tanta malinconia in Polverone. Com’è crescere e continuare a fare musica pop?

È difficile risponderti: dopo tanti dischi e tanti anni tendi a vedere questo tipo di testi come faciloni — un po’ populisti persino. Alla fine si cerca sempre di fare qualcosa che non si è mai fatto, perché alla fine anche noi di testi faciloni ne abbiamo fatti, senz’altro. Si cerca di fare qualcosa di più universale: quella è l’età, il tentativo di diventare più saggi porta a tentare di scrivere qualcosa di un po’ più universale. Noi siam sempre stati bastian contrari: quando abbiam fatto Grand Master Mogol tutti gli altri gruppi stavano a fare post rock o quell’indie rock un po’ tirato con le chitarre, tipo Bloc Party. Noi ci perdiamo anche in cose autoreferenziali perché non ci piace fare testi usa e getta: è un problema tipico del rap, ma l’indie italiano ha assunto molte idiosincrasie del genere negli ultimi anni. Nelle metafore trovi sempre esempi del momento: quindi, per quanto possa essere simpatico… io penso che citare un personaggio di un telefilm, che fra tre anni manco ci ricorderemo, riveli una superficialità che noi vogliamo evitare con la nostra musica.

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A proposito di grandi miti e metafore del momento: parlami di Punkabbestia.

Punkabbestia è un pezzo nostalgico, e penso si capisca. In quella traccia ci siamo sfogati: è un pezzo vecchio — è il primo pezzo che abbiamo fatto, praticamente buona la prima, prima ancora che Polverone nascesse come progetto. L’abbiamo registrato nel mio salotto, un pomeriggio di Natale, poteva essere il 26 dicembre, col pandoro. Non eravamo ancora in modalità “facciamo un disco” — buona parte delle altre tracce le abbiamo preparate facendo jam che abbiamo pianificato perché avevamo deciso che iniziavamo a preparare materiale per l’album. Punkabbestia è nata per gioco, invece, e l’abbiamo tenuta lì senza nemmeno sapere che sarebbe diventata un pezzo del prossimo disco — figurati sapere che sarebbe diventato uno dei nostri preferiti. Come al solito, non ci avevo capito un cazzo. È un pezzo con un sound che funziona con il resto del disco, ma noi stessi non sapevamo ancora come sarebbe stato. Succede.

Nel corso del disco si incrociano un po’ i significati di polvere, quasi stantia, e polverone, nel senso di gran rumore, quasi in senso cinetico. Come si coniugano i due concetti, che in realtà sembrano abbastanza l’uno il contrario dell’altro?

È una roba che è successa per caso. Quando abbiamo guardato la manciata di testi che avevamo iniziato a scrivere ci siamo accorti che c’era questo filo conduttore che in realtà era partito dal fruscio dei dischi che abbiamo volutamente non pulito quando li abbiamo campionati, perché volevamo che fare una roba sporca. Volevamo fare un disco sporco — anche se poi magari ci sono dei contrasti invece con dei sintetizzatori che sono super digitali, però l’idea era produrre un suono che, come dicevamo prima, doveva essere scuro. Gatti di polvere era un testo che Dario aveva già messo da parte, con l’idea del trasloco e degli scatoloni, dei segni sul muro quando togli le cose — aggiungici il sound che è polveroso anche lui… È un buon modo per mostrare una ripartenza, che partiva a modo nostro però: con una sgommata — con un gran polverone.


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Gli Amari aprono il tour di Polverone a wow! al Magnolia venerdì prossimo 24 novembre. Li ritroveremo insieme in diretta proprio venerdì prossimo. Mentre cancellate tutti i vostri impegni per venerdì, potete ascoltare il disco su Spotify e Apple Music.