Venezia sta affondando, ma la colpa non è solo del cambiamento climatico
Il MOSE, le grandi navi da crociera che sfilano a ridosso di Dorsoduro, la monocultura del turismo: tutto contribuisce a far sprofondare la città.
Il MOSE, le grandi navi da crociera che sfilano a ridosso di Dorsoduro, i pompaggi dell’acqua a Marghera per lo svuotamento delle falde, la monocultura del turismo: tutto contribuisce a far sprofondare la città.
Vivo in una città di passaggio, in fase discendente, il cui tessuto sociale è stato stravolto negli ultimi anni. Nato sulle rive di un lago diventato celebre per la letteratura, ora abito a Venezia da due anni, in un sestiere (isolato nda) scandalosamente fancy. Non che mi lamenti, ma a Venezia è strano applicare le stesse categorie valide a Milano, Londra, Parigi ecc.; però è così. La città — quando non è malmenata da havaianas gialle e immortalata istericamente da reflex surriscaldate per via dell’uso smodato, cioè di notte — semplicemente si spegne. Stanca e abbattuta dalle idiozie quotidiane della gente, l’isola non offre altro che la possibilità di errare (in tutti i sensi) tra le calli (strade nda). L’altra sera, dunque, mentre me ne tornavo a casa, mi sono ritrovato dalle parti di Rialto. Vicino al noto ponte c’è il ben più famigerato mercato del pesce, al di là di questo, oltre il canale, si ergono le mani di Lorenzo Quinn: Support. Quella scultura, che verrà smantellata al termine della Biennale di quest’anno, è una metafora, un monito: ci ricorda che la città sta lentamente affondando.
Più tardi, sul divano, mentre mi accendevo una sigaretta, ho iniziato a riflettere: Venezia sta affondando, bene, ma la causa è imputabile ai soli cambiamenti climatici come vorrebbe Quinn? E poi: ma è davvero il primo dei problemi della città? Vi spoilero il finale: no.
I cambiamenti climatici degli ultimi anni — dell’ultimo secolo in particolar modo, dopo la seconda rivoluzione industriale — certamente non aiutano. Utilizzando misurazioni tramite Gps e attraverso i dati forniti dall’InSAR, sappiamo che la città sprofonda, in media, 1-2 millimetri all’anno. La parte settentrionale della laguna cede di 2-3; a sud, invece, si arriva a 3-4 millimetri. OK, Venezia sta sprofondando, il clima non aiuta, ma la colpa, forse, non è da ricercare in una sorta di effetto farfalla, della serie: “Abbiamo fatto schifo per più di un secolo, ecco il risultato”. No, la causa è prossima, maggiormente legata alla politica locale; tra le cause, infatti, ci sono anche il MOSE, le grandi navi da crociera che sfilano come soubrette a ridosso di Dorsoduro, i pompaggi dell’acqua a Marghera (deteriore cittadina vicino a Venezia) per lo svuotamento delle falde ma, soprattutto, a far sprofondare la città è la “monocultura del turismo.”
Sul MOSE sono state raccontate tante storie, la vicenda si è trasformata in una cosa tipo “100 Vetrine”: ingegneri corrotti, bustarelle, la magistratura che indaga, un costo complessivo che sale a 8 miliardi — o giù di lì, alcuni dicono “solo” 5 — attrezzature arrugginite durante gli anni di lavoro e un’inaugurazione che avverrà, forse, nel 2022. I lavori per questo “MOdulo Sperimentale Elettromeccanico” hanno alterato le bocche portuali così da permettere il transito delle navi da crociera. Questo ha determinato, stando ai resoconti di pescatori e altri uomini di mare, il cambiamento delle correnti marine e l’erosione delle coste — erosione già iniziata con lo scavo del canale dei Petroli (tra il 1961 e il 1969). Il MOSE, però, anche qualora dovesse prender vita nei prossimi anni, non risolverà definitivamente le cose: è stato infatti progettato per le medie maree. Per le maree di bassa entità non è previsto che entri in funzione per via di un compromesso (economico) stipulato con le autorità portuali che gestiscono il via vai dei “mostri di latta” (le navi da crociera).
Il problema sono le grandi maree; maree che, dato il riscaldamento globale, sono destinate a presentarsi con una certa ciclicità nei prossimi anni.
L’eustatismo non è però un problema che si lega solo agli sconvolgimenti climatici degli ultimi tempi. È sicuramente, in parte, legato allo scioglimento dei ghiacci. Ma è dai tempi di Cesare — sì, quello famoso morto in stile Jon Snow — che questo fenomeno si presenta nella storia, è progressivo. Si sta alzando, certo, e questo influenza la città. Ma dall’altra parte c’è da considerare anche il processo antropico di costruzione, processo che crea un abbassamento (subsidenza) del suolo calpestabile (che da qualche anno si è stabilizzato). Le navi da crociera, nel frattempo, imperversano in tutta la laguna, scavando il fondale ed erodendo le antiche fondamenta che sorreggono tutta Venezia. Molteplici cause stanno determinando il progressivo annegamento della città, uno sprofondare però che si concretizzerà solo nei prossimi 50/100 anni. Su questo tema, recentemente, si è soffermata anche la stampa straniera (The Guardian, Der Spiegel, El Paìs ecc.). La stampa nostrana ne parla ciclicamente con la stessa verve con la quale Fusaro inneggia alla rivoluzione comunista 4.2: spesso. Recentemente è stato realizzato da Motherboard un documentario sulla faccenda.
All’interno però di un dibattito sull’argomento — che c’è, e anzi, per certi aspetti è diventato saturo — è interessante osservare il lato oscuro di questa luna che si fa ammirare anche da lontano. Probabilmente è una questione che poco ha a che vedere con l’interesse dei salotti della Gruber, di Belpietro o della D’Urso. Ma rimane oggi, probabilmente, la questione di più stringente attualità e contingenza per i veneziani: la monocultura del turismo dopata dall’attuale sindaco della città, Luigi Brugnaro.
Uomo dall’ego spropositato, forse anche più grande del mio, ha vinto le elezioni due anni fa con una coalizione di centrodestra. Definito anche “Il Becchino,” ha tentato di vendere la Giuditta II di Klimt per risanare il debito della città. Sguinzaglia giorno e notte squadroni della morte in giro per Venezia in caccia di terroristi secondo il mantra “se uno urla Allah Akbar lo abbattiamo”. Potrei continuare, sarebbe divertente, ma diventerebbe una sorta di Comédie humaine, solo più lunga e meno interessante. Venezia è oggi abitata da fantasmi: studenti, lavoratori pendolari, turisti, spettri di passaggio. Per chiunque viva ancora in Laguna la situazione “è arrivata al limite”, negli ultimi due anni c’è stato un incremento del turismo di massa; e tutti, salvo rari casi, sono delusi dall’amministrazione comunale.
Il tessuto sociale è mutato radicalmente. Negli ultimi tempi è stata inaugurata una nuova prassi finanziaria in città: la svendita degli immobili. Una cosa à la “mercato delle pulci,” con la partecipazione di tutti: Poste Italiane, Uffici del Governo, Regione Veneto, Comune e, giusto per essere previdenti, l’Esercito. Attraverso strategie che non si erano mai viste nemmeno in GoT, l’obiettivo è drammaticamente semplice: vendere i propri immobili a Venezia per far sì che si trasformino in ostelli, alberghi o Airbnb. I primi sono stati l’Istituto Cavanis e il Patronato (17 anni fa), l’altro giorno è toccato all’ospedale del Lido che ora è pronto per diventare un resort coi controcazzi (sic!), qualche mese fa al Cinema Teatro Italia (oggi è una Despar). Tra i tanti luoghi stuprati da questa politica suicida (per la città) è finito anche l’ospizio Ca’ di Dio: da oggi le 84 stanze — che servivano per l’epilogo dell’esistenza di altrettanti anziani — diventeranno stanze d’albergo.
Il “Gruppo25Aprile” — un gruppo civico cittadino che mi ha fornito la maggior parte di queste informazioni — è l’ultima roccaforte locale che tenta, da anni, di far fronte a questo tipo di dinamiche sociali/urbanistiche. Molti veneziani si sono trasferiti a Mestre, per esempio, lasciando la “residenza” a Venezia, così da poter affittare in nero la casa a pagare meno tasse.
La tendenza ora è: sfrattare gli inquilini in affitto per cessazione del contratto a fine locazione così da farci Airbnb.
Vivere a Venezia, per chi ci lavora, costa troppo; in questo modo ha preso forma una sorta di pendolarismo lavorativo. Dietro questa massimizzazione del profitto secondo le leggi del guadagno di stampo liberistico si cela un caso squisitamente umano. È una visione mercantile non orientata sul lungo termine. Marco Gasparinetti, portavoce del Gruppo25Aprile — stremato dalla conversazione telefonica che abbiamo avuto — alla forse sciocca domanda: “soluzioni?”, mi risponde che “siamo arrivati a un punto critico. L’unica chance, forse, è la separazione Mestre/Venezia (che non ha a che fare con i vari referendum che oggi spopolano in giro per l’Europa nda). Brugnaro ci ha provato, era la quinta volta, poi ha ritirato la proposta. Ci vuole una terapia d’urto, ci vuole una regolamentazione ad hoc per la città, bisogna che lo Stato intervenga”.
Personalmente non avevo mai osservato il turismo da questa prospettiva. I turisti mi hanno sempre affascinato: sono di passaggio. Mi sono sempre parsi innocui, spaesati (soprattutto a Venezia), come lo siamo tutti. E mentre allora la viva pietra resta a galla (per almeno i prossimi 100 anni), Venezia affonda, schiacciata dal petulante chiacchiericcio di quegli stessi turisti che, paradossalmente, la tengono sospesa sopra la superficie del mare, a metà strada tra realtà e fantasia. A breve la scultura di Quinn verrà smantellata, peccato.