Per tutto il pomeriggio, “Noi, cittadin* del mondo” ha animato via Caracciolo, con la partecipazione di numerose sigle e associazioni anti-razziste della città.
foto di Elena D’Alì
A un anno esatto dall’arrivo di circa 300 richiedenti asilo nell’ex Caserma Montello di via Caracciolo, gli attivisti del comitato Zona 8 Solidale hanno organizzato ieri una festa di fronte alla struttura, per ribadire la vocazione del quartiere all’accoglienza e alla solidarietà con un pomeriggio di musica, cibo, socialità e dibattito.
Aperta da un pranzo sociale e da una partita di calcio tra la squadra Black Panthers FC — formata da richiedenti asilo della Montello — e quella dei lavoratori della Scala, la manifestazione è andata avanti fino a dopo il tramonto, con gli interventi delle numerose sigle e associazioni antirazziste che hanno voluto aderire.
Tra questi, hanno portato la propria testimonianza i rappresentanti dell’associazione tunisina El Massir e dell’algerino Collectif de familles des Harraga d’Annaba, che si battono per giustizia e verità sui migranti morti, dispersi o vittime di scomparsa forzata — i nuovi desaparecidos. Ma ha preso la parola anche una realtà come Non Una Di Meno, coordinamento femminista impegnato contro la violenza di genere in tutte le sue forme. E poi musica — con la Banda degli ottoni e i percussionisti dei Mitoka Samba — libri usati e una raccolta di beni di prima necessità per i migranti.
Non è la prima volta che il comitato Zona 8 Solidale organizza iniziative di questo genere. Dopo la mobilitazione a favore dell’accoglienza un anno fa — i richiedenti asilo erano arrivati dopo settimane tese, fatte di polemiche politiche, comparsate di Salvini, CasaPound, e raccolte firme di fantomatici gruppi di quartiere contrari — il comitato si è sempre battuto per chiedere che la Caserma Montello diventasse un luogo aperto alla cittadinanza: non una barriera tra i residenti della zona e i nuovi arrivati, ma un punto di incontro e di conoscenza reciproca.
Gli sforzi sono culminati lo scorso marzo nella “due giorni” Libera Montello, durante i quali le porte dell’ex Caserma — che è un Centro d’Accoglienza Straordinario (CAS), quindi gestito direttamente dalla prefettura e normalmente inaccessibile se non agli operatori — si sono aperte per la prima volta al pubblico. Un’altra manifestazione è stata organizzata in occasione della grande marcia anti-razzista del 20 maggio scorso.
Due settimane fa, i membri del comitato hanno protestato contro i trasferimenti di alcuni richiedenti asilo, condotti con pochissimo preavviso, senza informazioni sulla destinazione e soprattutto senza nessuna attenzione per le esigenze di chi, nel corso di un anno, ha comprensibilmente sviluppato legami personali e lavorativi nella zona.
“Siamo riusciti a bloccare i trasferimenti più bruschi, quelli dalla notte all’alba,” mi spiega Selam, di Zona 8 Solidale. “Non perché ci dispiaccia della chiusura della caserma — anche noi siamo favorevoli a un modello di accoglienza diffusa, rispetto a centri con numeri così grandi — ma chiediamo almeno che le scelte siano consapevoli. Cosa che spesso non avviene: perché mancano mediatori, manca supporto psicologico e legale adeguato.”
La struttura, come previsto sin dall’inizio, dovrebbe chiudere entro fine anno, per lasciare spazio alla cosiddetta “Cittadella della polizia.” Ma la maggior parte dei migranti ancora non ha ricevuto nessuna risposta in merito alla propria domanda d’asilo. “I tempi lunghi della burocrazia sono drammatici,” continua Selam, “creano frustrazione e incomprensione a livelli pazzeschi. E per fortuna che siamo a Milano.”
I CAS sono infatti la pecora nera del sistema di accoglienza in Italia: pensati per essere strutture temporanee, di fatto sono diventati il sistema più diffuso, ospitando più della metà dei richiedenti asilo (nel 2016 la percentuale sfiorava l’80). A Milano e provincia, secondo il report appena pubblicato dal Naga e significativamente intitolato (Stra)ordinaria accoglienza, il rapporto con le strutture SPRAR — ovvero il circuito della “seconda accoglienza” — è di 10 a 1.
“Il sistema dei CAS fa sì che le strutture a cui viene appaltata l’accoglienza siano del tutto eterogenee,” ha spiegato ieri una volontaria dell’associazione. “Se capiti bene, bene, altrimenti peggio per te. La buona accoglienza dipende dalla cultura dell’ente gestore e dalla formazione degli operatori — che spesso però non sufficiente, anche perché i bandi prefettizi seguono ancora come unico criterio quello del minimo costo.” Ovvero: la gestione dei centri d’accoglienza viene affidata, a prescindere dal progetto, a chi costa meno.
Per questo diventa fondamentale il lavoro dei volontari esterni, quando siano in grado di portare avanti progetti di integrazione e socialità — dalle scuole di italiano alle attività sportive e ricreative.
Anche dopo la chiusura della caserma, il comitato Zona 8 Solidale non intende disperdere il lavoro fatto nel corso di quest’anno. “Di sicuro questa non sarà l’ultima iniziativa,” mi dice Selam. “Ci siamo resi conto di dover lavorare su questo quartiere quando abbiamo notato che gruppi neofascisti erano pronti a cavalcare l’onda per la presenza di un centro d’accoglienza di queste dimensioni. Quello che volevamo ribadire è che Milano non è come Goro. Per questo dobbiamo continuare a valorizzare le associazioni, le realtà e gli spazi che si occupano di solidarietà e mettono in rete le persone, come primo passo. Poi, occuparci della povertà dilagante, che colpisce tutti. E lavorare tanto sulla contro-narrazione, per far passare un messaggio diverso sulle migrazioni rispetto a quello che domina i media.”
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