A story of water: il progetto fotografico che racconta il watergrabbing in Etiopia e Sudafrica
Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi.
Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram. Questa settimana abbiamo parlato con Marirosa Iannelli, ideatrice, insieme ad Emanuele Bompan, del progetto Watergrabbing – a story of water, sostenuto tra gli altri da COSPE Onlus e CAP Holding e presente all’interno della sezione ONG del Festival della Fotografia Etica di Lodi in corso questo mese.
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Ciao Marirosa, volevo partire da COSPE Onlus: di cosa si occupa?
Cospe è una ONG che si occupa di ccooperazione internazionale ed educazione alla cittadinanza globale. Abbiamo 5 sedi in Italia e altre 18 in tutto il mondo — operiamo in 25 paesi in totale. Personalmente ci lavoro da circa 5 anni, ma sono anche una ricercatrice dell’Università di Genova.
Una fetta di lavoro importante di Cospe è legata al cambiamento climatico, l’accaparramento di risorse, di acqua e terra, e supporto alle popolazione locali in difesa dei diritti sia umani che ambientali, in zone urbane e rurali.
A partire dunque dalle sedi che abbiamo sparse nei vari paesi del mondo, abbiamo portato avanti più progetti legati al diritto umano all’acqua, sull’empowerment delle comunità per fare sì che potessero avere accesso ai servizi idrici. È capitato anche di avere rapporti con i responsabili della distribuzione dell’acqua, i fornitori di questi servizi in loco.
È importante notare che una struttura come Cospe è in grado di lavorare in maniera trasversale e complementare: lavorando in tanti paesi e in tante realtà riesce a far circolare, esportare, strategie efficaci già adottate in altre situazioni. Quello che cerca di fare è di giocare il ruodo di facilitatore dei processi di attivazione di buone strategie. Naturalmente non possiamo imporre le nostre conoscenze e visioni in ogni realtà, perchè diversa e problematica, per questo dico che cerchiamo di facilitare i processi.
Con Cospe, a seguito dei diversi progetti avviati, e vista la conoscenza della problematica in maniera strutturale ormai, abbiamo avviato anche un progetto di denuncia di tutti i casi di watergrabbing.
Il progetto Watergrabbing – a story of water invece come nasce?
Questo progetto nasce e cresce fuori da COSPE, in particolare da un incontro con Emanuele Bompan, giornalista e geografo. Il tutto è nato dal nostro incontro a una conferenza, durante la quale abbiamo avuto l’opportunità di scambiare conoscenze e idee, e a lui piacquero molto i progetti che stavo seguendo, relativi proprio al tema del watergrabbing.
È da questo incontro che è nata una collaborazione per la partecipazione ad un bando indetto dal Centro Europeo del giornalismo, che in seguito abbiamo vinto.
Cosa prevedeva il bando?
Il bando ci dava la possibilità di realizzare quattro reportage, testo e foto. Ecco dunque la presenza dei fotografi: il format stesso del bando prevedeva un lavoro non solo giornalistico ma anche fotografico.
Da quel momento abbiamo contattato i tre fotografi coinvolti in questo progetto: Fausto Podavini, Gianluca Cecere e Thomas Cristofoletti, a seconda delle aree geografiche del mondo che già questi fotografi conoscevano.
Ci racconti brevemente di cosa parlano questi progetti?
Con Fausto Podavini abbiamo realizzato due progetti, uno in Etiopia ed uno in Sudafrica. Lui aveva già realizzato un progetto a lungo termine sull’Etiopia, durato ben 5 anni, quindi come fotografo conosceva già bene quelle zone. In Sudafrica abbiamo deciso di andare comunque con lui, in una missione di circa 20 giorni, esplorando tutte le zone delle miniere di carbone, così come altre miniere estrattive.
Thomas lo abbiamo contattato perchè è italiano ma vive in Cambogia; lui si è occupato del caso realtivo al watergrabbing lungo il fiume Mekong e con lui abbiamo attraversato ben sei paesi, inoltre conosceva già bene la realtà locale.
Con Gianluca Cecere invece siamo andati nei territori occupati Palestinesi. Anche lui si era già interessato parecchio della situazione israelo palestinese.
Ci tengo a precisare e ribadire che tutti i fotografi coinvoliti avevano lavorato o vissuto nelle diverse realtà cheabbiamo poi indagato per il progetto watergrabbing — questo sicuramente ci è stato di aiuto, ci ha facilitato in parte il lavoro.
Voi siete stati con tutti e 3 i fotografi?
Si, in diversi periodi, naturalmente, in un arco temporale che va da agosto 2016 a gennaio 2017.
Il Bando cosa prevedeva oltre alla realizzazione dei quattro reportage?
Oltre alla realizzazione degli articoli e delle foto questo bando prevedeva alcune media partnership, per cui i reportage realizzati sono usciti sia su testate italiane che estere.
COSPE invece come vi ha supportato?
La premessa da fare è che trattandosi di un lavoro molto ampio, il bando vinto non è bastato a coprire interamente i costi, così abbiamo proseguito la ricerca di fondi per sostenerci.
COSPE, insieme ad altri, è diventato sponsor dell’atlante dell’acqua, firmato da me, Emanuele e anche Riccardo Pravettoni e Federica Fragapane, questi ultimi rispettivamente cartografo e info designer. Si tratta di un atlante geografico scaricabile gratuitamente – sia in italiano che inglese – che ha l’ambizione di fornire un quadro aggiornato sulla situazione idrica mondiale.
Con Cospe si è scelto di fare anche un’altra operazione, ovvero promuovere le fotografie. È così che abbiamo deciso di partecipare al Festival della Fotografia Etica di Lodi, un’occasione per far conoscere ancor di più questo progetto sul watergrabbing.
In termini generali, come si inserisce la fotografia all’interno delle diverse attività che una ONLUS svolge?
In generale la parte della comunicazione, e dunque anche la fotografia, è una parte fondamentale per le ONG. È fondamentale perchè lavoriamo in contesti lontani dall’Italia, e dunque bisogna far capire cosa si fa sul campo. In questo senso la fotografia è uno strumento sicuramente molto immediato.
Le fotografia devono raccontare sia situazioni di disagio, così come raccontare le comunictà che sono riuscite a ripartire, ad essere resilienti. È un mezzo comunicativo molto forte, un linguaggio anche più immediato di un articolo. L’articolo chiaramente rimane fondamentale per spiegare cosa succede dietro ad una fotografia, per spiegare la situazione la situazione locale ed anche il lavoro delle ONG.
Cosa ha significato per te questa esperienza, e cosa significa ancora oggi?
Pensa che dopo tutto questo lavoro e questi viaggi fatti con Emanuele mi sono decisa a iscrivermi a una Masterclass di fotografia, sono arrivata al punto di voler approfondire questo linguaggio e questo metodo di investigazione: l’esperienza è stata molto intensa, bella ma sicuramente difficile.
Sono esperienze che ti fanno entrare nel vivo di ogni situazione. Arrivi a prendere coscienza e consapevolezza di responsiblità mondiali, dei meccanismi internazionali. Capisci quanto sia difficile cambiare le cose ma anche di quanto sia necessario tutto questo.