Ma la crisi della sinistra non è iniziata ieri e non riguarda soltanto l’Italia, perciò non finirà domani e non minerà solamente le prossime elezioni politiche.
Se questo articolo fosse un film, inizierebbe probabilmente con una carrellata di immagini ordinate secondo un climax ascendente e così culminante: Giovanni Lindo Ferretti si fa fotografare con Giorgia Meloni ad Atreju (2015), Fausto Bertinotti presenzia ai meeting di CL (2016), il manifesto pubblica un libro di Papa Francesco (2017). Tre brevissimi quanto emblematici frame, che ben simboleggiano il quadro di generale declino dei valori di riferimento della sinistra italiana. Ma la crisi della sinistra non è iniziata ieri e non riguarda soltanto l’Italia, perciò non finirà domani e non minerà solamente le prossime elezioni politiche, anzi metterà a dura prova l’intero sistema democratico su cui si fondano gli Stati occidentali.
Per comprendere appieno la condizione che attanaglia l’attuale centro-sinistra e la sua pericolosa prossimità al centro-destra, è necessario menzionare un primo e radicale cambiamento avvenuto a sinistra a partire dagli anni ’70, che ha assunto carattere tanto economico quanto politico. Sul piano economico, dinanzi al fallimento del sistema keynesiano di Bretton Woods, che ha spianato la strada all’avanzata della globalizzazione, la sinistra occidentale si è rassegnata gradualmente all’accettazione passiva del capitalismo, finendo per assumerlo come fenomeno dato e proponendo alternative solo interne a questo sistema e non più sovversive dello stesso. Fulcro del cambiamento politico, invece, sono stati i movimenti del Sessantotto: delle loro due anime, da un lato quella libertaria e dall’altro quella riconducibile a istanze strutturali politico-sociali, soltanto la prima ha lasciato una (gigantesca) eredità ai posteri. Risultato: l’allontanamento progressivo ed inesorabile della sinistra dai diritti sociali, collettivi, e il conseguente avvicinamento ai diritti civili, individuali.
Il processo eutanasico della sinistra accelera rapidamente nel corso degli anni ’90, in seguito a due principali eventi: uno interno, cioè la crisi e la dissoluzione dei partiti di massa – velocizzata dallo scandalo di Tangentopoli – e uno esterno, ossia la nascita del thatcherismo prima e del blairismo poi.
L’effetto di questa combo letale porta, oggi, il volto e il nome dell’ex premier e di un partito plasmato (quasi) a sua immagine e somiglianza.
Come ha fatto la sinistra, madre delle più grandi conquiste popolari della storia, a tradire il suo stesso popolo? Com’è riuscito il Partito Democratico, sotto la guida di Matteo Renzi, a perdere il senso dell’orientamento tanto da finire (quasi) a destra? La ricetta è semplice: se i partiti non sono più rappresentativi di larghi settori della popolazione, essi diventano contenitori ideologicamente vuoti, che possono essere riempiti a piacimento dai carismatici leader che ne giungono a capo. E se, per un caso o per un preciso gioco di poteri, il vuoto dirigenziale del partito x va a sovrapporsi ad un vuoto istituzionale più o meno improvviso, ecco servito il pasticcio: uno sfrenato liberista a capo del maggiore partito di centro-sinistra e – al contempo – a guida del governo. Perché, in quei contenitori vuoti che sono diventati i partiti, a nessuno importava – nelle primarie del 2013 – se il programma di Renzi fosse più simile a quello di Berlusconi che dei concorrenti interni al PD, con linee guida quali privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, riduzione delle tasse e nessuna traccia di patrimoniali. E ancor meno importa che, una volta al governo, il PD abbia seguito alla lettera lo spirito liberista di quel programma, sintetizzato nel paradigma “più bonus, meno welfare,” ossia “diamo una mancia ai professori, ma tagliamo i fondi all’istruzione pubblica.”
Così è avvenuto anche nel resto d’Europa, con i partiti socialdemocratici che hanno compiuto l’ultimo passo verso quel processo eutanasico intrapreso decenni fa – da soli (come il PS di Hollande in Francia) o in coalizione con il centro-destra (come l’SPD di Schulz in Germania), appiattendosi su prospettive neoliberiste.
Cosa resta, adesso, staccata la spina? Grande è la confusione sotto il cielo. La sinistra, oramai completamente trasfigurata e priva di identità, è dinanzi a un bivio: continuare a prostituirsi per tenersi stretta qualche poltrona o ricucire i rapporti coi propri storici valori – lavoro ed uguaglianza in primis – correndo il rischio di perdere qualche consenso nella prima fase di rinnovamento. Ad ostacolare la già difficile risposta a questo dubbio amletico, ci sono destra e Cinquestelle, pronti ad approfittare della crisi. In che modo? Spesso azzardando quelle posizioni decise, populiste e anti-sistemiche che la sinistra non riesce a prendere, talvolta utilizzando gli stessi miti che la sinistra ha rinnegato.
Sì, perché se questo articolo fosse un film, finirebbe probabilmente con una carrellata di immagini simili a queste: Matteo Salvini pubblica un video di Nasser, Luigi Di Maio dice di rifarsi ai valori di Enrico Berlinguer e Giorgio Almirante (sì, nella stessa frase), Diego Fusaro parla di Gramsci e Mussolini come i più grandi intellettuali del secolo scorso (sì, nella stessa frase). Il rischio, dunque, è che la destra si appropri di valori di sinistra prima che lo faccia la sinistra stessa. Un rischio ben strumentalizzato dai predicatori del “sovranismo” contro il “globalismo,” quelli che dichiarano sepolti gli schieramenti di destra e sinistra. Un rischio da non sottovalutare, se pensiamo che persino il fascismo è nato come “socialismo di destra,” eppure, dopo averlo sperimentato, abbiamo capito che aveva molto di destra e ben poco di socialista.
Cosa fare, dunque, per arginare la deriva populista che vede fondersi “rossi” e “bruni” in un amorfo quadro di valori sbiaditi, linee programmatiche nulle e una rilevante componente sentimentalista-emotiva?
Se da un lato il Pd pare aver già scelto da che parte del bivio andare (non a sinistra, ndr), un esempio in controtendenza ci arriva dall’Oltremanica: è l’esempio di Jeremy Corbyn, un “socialista duro e puro” che ha letteralmente rivoluzionato il Labour. Il suo programma promette, tra le altre cose, la nazionalizzazione di settori strategici (ferrovie, trasporti, energia), un sistema fiscale progressivo improntato su una maggiore giustizia sociale, una posizione anti-interventista in politica estera. Ma la rivoluzione di Corbyn non è soltanto contenutistica: se la sostanza del suo programma contrasta i dogmi del neoliberismo, argina i populisti e si beffa dei conservatori, il suo svecchiamento estetico e comunicativo riesce a convincere anche i più giovani, disaffezionati alla politica. Ecco perché Jeremy Corbyn ha il successo che non hanno le piccole e piccolissime sigle a sinistra nel resto d’Europa: il socialismo di cui si fa portavoce non parla (soltanto) di industria, di padroni e operai, non usa termini marxiani che – per quanto attuali – descrivono la realtà secondo categorie di pensiero ormai superate. Al contrario, riadatta le teorie economiche dei padri fondatori del socialismo ad un mondo stravolto dalla rivoluzione tecnologica. E lo fa parlando di robotica, di automazione, di cambiamento climatico.
Quale strada intraprenderà la sinistra italiana resta ancora un’incognita. Una sola cosa è certa: se la sinistra smette di fare la sinistra, non avremo alternativa alla destra. E quanto a lungo potrà reggere il sistema democratico, in un mondo senza alternative?