Siamo andati a sentire Omar Souleyman alle Officine Grandi Riparazioni di Torino, tra passi di danza improvvisati e riflessioni sull’appropriazione culturale.
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Contesto
Omar Souleyman è nato nel 1966 nel villaggio di Tell Tamer, nel nord-est della Siria, a breve distanza dal confine turco. Abitato in maggioranza da curdi e assiri e controllato dalle forze curde degli YPG, il villaggio è stato al centro di aspri combattimenti per tutto il 2015, nel corso dell’offensiva contro lo Stato Islamico a est della città di al-Hasakah. Nel marzo di quell’anno, i miliziani islamisti rapiscono più di 200 assiri cristiani, devastandone le chiese. A dicembre, un nuovo attacco provoca tra i 50 e i 60 morti civili.
Esule in Turchia, in quello stesso anno Omar Souleyman pubblicava il proprio penultimo album, Bahdeni Nami, per l’etichetta berlinese dei Modeselektor Monkeytown Records, e godeva già da qualche anno di un seguito di culto in Occidente: nel 2011 si esibisce sul palco del Glastonbury, produce tre remix per Bjork, viene scelto da Caribou per cantare all’ATP Nightmare Before Christmas; nel 2013 esce il suo primo album vero e proprio, Wenu Wenu, prodotto da Four Tet — ma le registrazioni dal vivo delle sue performance ai matrimoni, frequentati in lungo e in largo in Siria a partire dagli anni ‘90, sono centinaia. Quest’anno è uscito il suo ultimo lavoro, To Syria, With Love, e ieri siamo andati a sentirlo dal vivo alle Officine Grandi Riparazioni di Torino, nella sua unica data italiana.
Location
Costruite tra il 1885 e il 1895, le Officine Grandi Riparazioni continuano la loro attività di manutenzione dei veicoli ferroviari fino agli anni Novanta. Nel 2013 la Fondazione CRT – fondazione bancaria nata dalla Cassa di Risparmio di Torino e in seguito accorpata a UniCredit – acquista gli spazi delle ex officine in accordo con il Comune di Torino per la riqualificazione dei 35.000 metri quadri e un investimento di quasi 90 milioni. L’obiettivo dichiarato è quello di trasformare le officine in uno spazio di stimolo culturale per la cittadinanza, “offrendo opportunità di crescita, confronto e collaborazione per il territorio, le istituzioni e le imprese più innovative.” L’esperimento delle Officine Grandi Riparazioni – portato avanti su larga scala – riprende esempi già collaudati come il milanese Hangar Bicocca, ex fabbrica per la costruzione di locomotive trasformata in spazio espositivo nel 2004 grazie all’impegno di Pirelli.
https://vimeo.com/202368925
Per l’inaugurazione dei suoi spazi OGR ha puntato sulla musica, organizzando una serie di concerti gratuiti che hanno coinvolto artisti nazionali e internazionali: Ghali, Giorgio Moroder, Elisa, The Chemical Brothers, Kraftwerk e il nostro Omar Souleyman. Risulta evidente leggendo la line-up il tentativo di mescolare e unire – ammiccando un po’ all’operazione pubblicitaria più che musicale – diverse orecchie e platee. Ma non poteva essere altrimenti nel regno del Club to Club, uno dei festival musicali più poliedrici e multiculturali della scena italiana, con cui le OGR non avvieranno una sanguinosa battaglia, bensì una collaborazione parallela durante il mese di novembre.
In questa scenografia post industriale — dominata da superfici mattonate e un soffitto alto 16 metri — le Officine hanno ospitato per il secondo evento il re della dabke, che si è confrontato con un pubblico misto, disomogeneo e incuriosito dalle sonorità siriane.
Batti le mani
Come si può vedere anche dai video dei suoi concerti su YouTube, Omar Souleyman sul palco è statico e imperscrutabile. Sempre vestito con dishdasha (o thwab, la tunica tradizionale) e kefiyah, lo sguardo nascosto dagli occhiali scuri e i baffi perfettamente curati, la sua gestualità è ridotta al minimo: quando non canta, sistema il microfono sotto braccio e batte le mani, tenendo i palmi perfettamente paralleli. Spesso incita il pubblico a fare lo stesso, allarga le braccia e si inchina leggermente per ringraziare alla fine di un brano.
La sua staticità — e quella del virtuoso tastierista Rizan Sa’id, unica altra presenza sul palco — contrasta con il ritmo frenetico e irresistibile della musica, e con la sua instancabilità: il set scorre dall’inizio alla fine quasi senza pause, e lui non fa mai una piega. La nostra ipotesi è che sia un’abitudine derivata dai lunghi anni passati a cantare a feste e matrimoni, dove il pubblico è impegnato a ballare e a divertirsi prestando poca attenzione al cantante, che quindi non ha particolare bisogno di dare spettacolo. L’immobilità di Omar Souleyman è specchio di uno ieratico professionismo.
Come si balla la dabke
Non altrettanto statico dovrebbe essere il pubblico: Souleyman suona una versione elettronica della dabke (o dabka), danza tradizionale molto diffusa in Siria e nei paesi confinanti, e, per quanto possa essere influenzata dall’EDM occidentale, ne conserva fedelmente suoni, stilemi e ritmi. Purtroppo il poco spazio disponibile nella ressa di fronte al palco impediva di renderle giustizia, almeno non senza schiacciare i piedi ai vicini. Per fortuna siamo capitati accanto a Karim, siriano, che insieme a un suo amico libanese ha provato a spiegarci i passi fondamentali. Entrambi studenti al Politecnico di Torino, erano fuori di sé dalla gioia nel vedere Souleyman, di cui conoscevano a memoria gran parte dei testi — anche su questo fronte hanno provato a darci qualche lezione, ma con scarsi risultati.
Di sicuro ci hanno regalato il momento migliore della serata, quando, in una sorta di pogo in versione mediorientale, siamo riusciti a coinvolgere una decina di persone a prendersi per il braccio e ballare in cerchio una dabke estatica e molto scoordinata.
Chi siamo noi per ballare Omar Souleyman?
All’età di 51 anni, Souleyman è il primo ad essere sorpreso della propria popolarità in Europa. Ma quanto di questo successo è dovuto a una curiosità superficiale del pubblico occidentale per l’esotico? Quanti, ieri, erano alle OGR per ascoltare e apprezzare genuinamente la musica di Souleyman, e quanti solo per posa e presenzialismo? O ancora: ha senso una performance come quella di Omar Souleyman fuori dal suo contesto naturale, di fronte a un pubblico di hipster nord-italiani che non capiscono neanche una parola di quello che canta e non hanno niente a che fare con la sua cultura?
È un problema più ampio che riguarda da sempre tutta la musica che vagamente si definisce world — con un termine che già tradisce una prospettiva profondamente etnocentrica, e che quindi sarebbe meglio evitare. Lo stesso discorso si applica a tutti gli artisti che hanno popolarizzato presso un pubblico occidentale la musica tradizionale dei propri paesi, spesso adattandola alle orecchie europee: da Fela Kuti ai Tinariwen, passando per Ravi Shankar.
Nel caso di Omar Souleyman — che, come notava nel 2015 Gianni Santoro su XL, sembra un personaggio uscito da un film di Sacha Baron Coen: talmente vero da sembrare uno stereotipo — è difficile non farsi prendere da un po’ di senso di colpa. La sua immagine, il suo “personaggio,” inevitabilmente contribuisce al suo appeal. Non si può sfuggire. D’altra parte, nessuna cultura, da nessuna parte del mondo, è completamente “pura” e autoctona: mescolare, abbattere i muri, fa solo bene. E anche uno sguardo distratto e superficiale su qualcosa che si conosce poco può gettare le basi per un arricchimento futuro.
Ma soprattutto, chi è Omar Souleyman?
Siamo noi che guardiamo Omar Souleyman come si guarda una creatura esotica al di là del vetro. Oppure è il contrario? È quello che ci chiediamo costeggiando le mura delle OGR all’uscita dal concerto, immaginando di veder uscire Souleyman dall’ingresso sul retro, senza più kefiyah e thwab, magari in pantaloni e camicia.
Indagare l’autenticità del pubblico porta inevitabilmente a indagare l’autenticità dell’artista: ridendo sotto i baffi, abbiamo l’impressione che Souleyman si diverta ad assecondare gli strani gusti della platea occidentale, servendo loro esattamente quello che si aspettano — uno stereotipo, appunto.
Ma forse questo è un eccesso di sospetto. “Ovviamente, se la situazione torna a calmarsi in Siria, tornerò alle mie esibizioni ai matrimoni,” ha detto in un’intervista del 2015 al Guardian. “Mi ricordano dei vecchi tempi, prima della guerra, e sono molto importanti per la mia vita sociale. Ora i miei amici e la mia famiglia sono sparsi tra la Turchia, la Siria, l’Iraq e l’Europa. Era bello vedere che i matrimoni portavano le persone a stare insieme. Se potessi farlo ancora, lo farei.”
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