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Oltre alle ragioni romantiche, come la difesa della cultura e della lingua catalana, gli indipendentisti si appellano a motivi prettamente economici.

Mettete un sabato sera di fine settembre a Barcellona. In occasione della festa della Mercè, sulla spiaggia cittadina di Bogatell si erano radunate decine di migliaia di persone, soprattutto giovani, per assistere al concerto di Manel, band pop che canta in catalano; da quelle parti è adorata. Dovrebbe trattarsi di un momento di festa e divertimento, ma nemmeno un concerto riesce a svincolarsi dal contesto politico in questi giorni tesi. La settimana seguente (il 1 ottobre) è in programma un referendum sull’indipendenza della Catalogna, già giudicato illegale dalla Corte costituzionale spagnola. Nei giorni precedenti il governo di Mariano Rajoy (Popolari), ha ordinato il sequestro di milioni di schede elettorali e l’arresto di diversi funzionari catalani da parte della guardia civil; in queste condizioni, difficilmente il referendum potrà essere svolto. Così, tra una canzone e l’altra, alcuni gridano in coro “Vutarem! Vutarem!,” come a dire: fate pure quello che volete, ma non ci fermerete.

Intorno alle 22, diventata l’ora della protesta a Barcellona, ogni giorno la città risuona del rumore di chiavi, mestoli e pentole percossi in segno di indignazione da migliaia di persone affacciate dalle finestre e dai balconi. I muri delle strade e le stazioni della metro sono tappezzate di manifesti in favore del referendum, che spingono a “votare per avanzare;” alcuni raffigurano dei volti umani con la bocca tappata, con un evidente riferimento alle recenti misure prese dal governo spagnolo.

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Sono immagini forti, su cui spesso i media internazionali sorvolano, ma che restituiscono il vero senso della questione catalana: un caso che unisce nazionalismo e identità politica. Perché, in sostanza, è di questo che si tratta quando si parla di indipendenza della Catalogna. Una regione che già gode di particolare autonomia grazie al suo nuovo Statuto, introdotto in sintonia col governo centrale nel 2006 ed approvato a grande maggioranza (78%) dai catalani in un referendum consultivo.

Il nazionalismo catalano affonda le sue radici nella storia della Spagna e si sviluppa a partire dalla fine dell’800. La sua crescita è avvenuta soprattutto sotto la dittatura di Francisco Franco, quando la volontà del regime di sopprimere il separatismo si tradusse nella totale proibizione del catalano da tutti gli ambiti pubblici. Così facendo, Franco causò un senso di repressione ed isolamento tra i catalani, un sentimento che è presente ancora oggi nella società. Dopo la caduta della dittatura, il nazionalismo catalano ha provato a ricostruire una memoria storica propria della regione. Il passaggio dalla richiesta di maggiore autonomia all’indipendenza è avvenuto solo di recente.

Carles Puigdemont
Carles Puigdemont

La battaglia per l’indipendenza è un cavallo sul quale punta fortemente il presidente della regione Carles Puigdemont, a capo dell’alleanza indipendentista Junts pel Sí, che dal 2016 governa la Catalogna. Eppure, la causa non ha ancora sedotto la maggioranza della sua popolazione. Oltre alle ragioni romantiche, come la difesa della cultura e della lingua catalana, gli indipendentisti si appellano a motivi prettamente economici. Sostengono, per esempio, che, una volta separati dalla Spagna sarebbero (ancora) più ricchi; accusano inoltre Madrid di “rubare” soldi alla Catalogna, restituendo alla regione meno risorse rispetto alle somme ingenti versate dalla più ricca regione spagnola nelle casse nazionali. Di recente l’indipendentismo ha raccolto maggiori consensi; visto il contesto di crisi sociale diffusa in Spagna come in Catalogna, tuttavia, è lecito domandarsi se esso non sia uno specchietto per le allodole per distrarre i cittadini dai problemi più urgenti del Paese.

Dopo gli arresti da parte della polizia nazionale in Catalogna, gli organizzatori del voto hanno protestato contro un tale “attacco alla democrazia.” Gli indipendentisti accusano il governo centrale spagnolo di essere autoritario, invocando un principio ONU come “il diritto all’autodeterminazione dei popoli.” Parole che lascerebbero pensare che in Spagna sia in atto la repressione di una minoranza. In realtà, come ha spiegato El Pais, ci sono più ragioni per considerare la Spagna pienamente democratica: per esempio Freedom House ha dato un punteggio di 95/100 al rispetto dei diritti civili e politici in Spagna, lo stesso attribuito alla Germania. Inoltre, i dubbi sulla democrazia riguardano anche il governo catalano: lo stesso referendum è stato convocato grazie ad una legge approvata con soli 72 voti nel corso di una seduta a tarda serata del parlamento regionale.

Manifesto pro referendum a Barcellona (foto da Twitter)
Il palazzo del comune di Barcellona pochi giorni fa (foto dell’autore)

Per questi motivi è arduo, come è stato fatto da alcuni media nelle ultime settimane, presentare univocamente le forze indipendentiste come eroi della democrazia. Il governo catalano ha sfruttato la decisione di Madrid di mandare le forze dell’ordine per bloccare le operazioni di voto per farsi passare come una sorta di agnello innocente davanti alla violenza del lupo. La realtà dice invece che, oltre alla preferenza della forza al dialogo da parte del governo spagnolo, la violenza politica è presente anche tra gli indipendentisti. Già la decisione di ignorare la sentenza della Corte costituzionale spagnola è una forte provocazione nei confronti dei giudici e, per esteso, di coloro che sono tenuti a far rispettare la legge, ovvero l’esecutivo stesso. Come ricorda ancora il Pais, un “referendum democratico” deve rispettare le norme costituzionali dello Stato in questione; questo non è il caso per il voto catalano.

Alcuni commentatori hanno messo in guardia i cittadini europei sulla reale natura della maggioranza catalana che si trova al potere: un gruppo di ultra-nazionalisti che assomiglia ai polacchi del PiS (Diritto e giustizia), il partito al governo a Varsavia noto per essere ostile alle libertà democratiche, piuttosto che ai militanti dei Paesi baltici che tentano di resistere alle intrusioni da parte della Russia di Putin, come essi amano auto-rappresentarsi. Un governo, quello di Barcellona, che grazie ai suoi numeri nell’assemblea regionale si ritiene superiore ai vincoli della democrazia e ignora i diritti della minoranza, pure catalana, che la pensa diversamente su un tema così delicato come la secessione dalla Spagna.

Il palazzo del comune di Barcellona pochi giorni fa (foto di Matteo Guidi)
Manifesti pro referendum a Barcellona

Se certamente l’identità catalana merita rispetto, le ragioni dell’indipendentismo vengono da lontano e va trovato un modo legale per permettere ai cittadini della regione di esprimere in modo chiaro la loro volontà, d’altra parte il governo catalano sembra strumentalizzare la frustrazione dei suoi cittadini per conquistare maggiore consenso politico. Da questo punto di vista la causa indipendentista appare come una mossa portata avanti per puri calcoli politici, più che per un romantico desiderio di libertà. Così, tra media che fomentano le due fazioni, e politici, da ambo le parti, che rifiutano il dialogo, le ultime vicende non hanno fatto che alzare la tensione ben oltre i livelli di guardia; specie per un Paese come la Spagna, già teatro di una tremenda guerra civile. Dalla Catalogna arriva un brutto segnale anche per l’Europa, i cui popoli sembrano non aver ancora appreso le lezioni della storia recente, continuando la loro morbosa attrazione per il nazionalismo, di qualsiasi genere esso sia.


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