Non è facile essere Sarajevo
“Io per voi farei di tutto, porterei anche un bicchiere d’acqua a piedi dalla Bosnia in Italia se un amico italiano me lo chiedesse.”
Pod zemljom è un progetto di Martina Scalini, Mario Blaconà, Valerio Casanova e Gabriele Camilli, realizzato grazie a FuoriRotta. Dal 25 agosto all’8 settembre, un viaggio attraverso i Balcani lungo i sentieri dimenticati delle mine antiuomo, tra i fantasmi della memoria dell’ex-Jugoslavia. Qui tutte le puntate.
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E anche quando stiamo bene noi gemiamo
semplicemente per non perdere il ritmo.
—Ismet Salihbegović
La maggior parte del viaggio è alle nostre spalle. Lasciamo Belgrado e torniamo in Bosnia, dirigendoci verso la multietnica Sarajevo. Nascosta da chilometri di paesaggi collinari la città si fa strada dentro una valle e appare all’improvviso.
Ci sembra di stare dentro una delle città invisibili descritte da Calvino: ci sono piccole casette con mattoni chiari lungo le strade, larghe appena per lasciare passare le piccole yugo; gli edifici sembrano quasi tutti pub, interrotti ogni tanto da casermoni popolari, indubbiamente yugoslavi, che irrompono nell’armonia del paesaggio urbano, creando uno skyline irregolare e affascinante. Presa la strada verso il centro tutto inizia a cambiare, qui ci sono grandi edifici in vetro e insegne luminose. Siamo tornati in pieno Occidente.
Usciti dal centro percorriamo un viale molto lungo dove le case portano i segni delle granate. Più tardi scopriremo che il nome di questa strada è Ulica Zmaja od Bosne (Strada del dragone di Bosnia) ma è conosciuta come Snajperska aleja ovvero il Viale dei cecchini. Durante l’assedio questa strada era famosa per la presenza di numerosi cecchini appostati nelle vicinanze, da qui infatti i tiratori riuscivano ad avere una vasta area di fuoco. Più tardi scopriamo anche che, ai cecchini serbi, è capitato che si unissero alcuni uomini benestanti (da tutto il mondo) che, dietro pagamento, potevano appostarsi insieme ai cecchini per sparare ai sarajeviti lungo il Viale; tutto questo per divertimento. Alcuni di questi benestanti paganti erano italiani.
Verso sera arriviamo al nostro appartamento, ma l’acqua non c’è, perché a Sarajevo, di notte, la razionano.
La mattina dopo abbiamo appuntamento sotto casa con una coppia del posto, i nostri compagni di viaggio nei successivi tre giorni: Nedim e Dubravka. Lui ha uno sguardo buono, parla tanto e fuma ancor di più, lei ha invece un sorriso gentile e timidamente cerca sempre di inserirsi nelle pause dei discorsi del marito.
Appena cominciata la guerra Nedim e Dubravka erano diventati genitori, da meno di un anno; motivo per cui si sono separati quasi subito, lui è rimasto a combattere per la città durante l’assedio, mentre lei è partita con il figlio Arin verso la Croazia. Dubravka ha peregrinato per diverso tempo come profuga, spostandosi di casa in casa. In Diario di Sarajevo (diario personale di Dubravka durante la guerra pubblicato per la infinito edizioni), Dubravka racconta del suo ritorno a Sarajevo e di una seconda fuga subito dopo, ingannata dalla prospettiva di un armistizio che si verificò solo dopo un altro anno. Intanto Nedim combatteva sulle colline di Sarajevo, assistendo ogni giorno a fucilazioni, compagni d’armi saltati in aria su mine antiuomo e alla morte del suo migliore amico.
Dopo la guerra Nedim raggiunse Dubravka e Arin, che nel frattempo erano venuti a vivere in Italia, aiutati da una famiglia della Val Sassina: “Io per voi farei di tutto, porterei anche un bicchiere d’acqua a piedi dalla Bosnia in Italia se un amico italiano me lo chiedesse,” dice Nedim, “ci avete salvato.” Oggi Nedim, Dubravka, Arin e Beniamino (figlio nato in Italia dopo la guerra) dopo diversi anni in Italia sono tornati a Sarajevo. Beniamino è un giocatore professionista di videogiochi, la notte spesso sta sveglio per gareggiare con altri gamer.
Nedim e Dubravka amano guardare il figlio giocare, ma non possono sentire a lungo l’audio quando si tratta di un gioco di guerra, il sibilo dei proiettili ricorda troppo la guerra, quella vera.
Dubravka ci insegna a fare il caffè turco e a cucinare una buona pita, mentre Nedim ci mostra il suo lavoro da orefice artigiano: “Riusciamo a cavarcela, anche se la crisi qui è molto dura.”
Sentiamo qualcosa in ogni piega che si nasconde tra le parole di queste persone, un costante grado di separazione tra ciò che hanno vissuto e la pace che hanno conquistato a fatica, un silenzio che ci parla, per quanto si possa raccontare e per quanto si possa piangere raccontandolo, dello sbigottimento davanti alla crudeltà di una guerra tra fratelli.
È arrivato il momento di rimetterci in cammino verso casa, salutiamo Sarajevo, che torna a nascondersi dietro le colline.
Per che cosa abbiamo combattuto?
Lo vedremo quando il fumo si disperderà.