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L’eliminazione territoriale del Daesh e le nuove pressioni politiche di Beirut hanno aperto nuovi interrogativi sul futuro del milione e mezzo di siriani nel Paese levantino.

BEIRUT — La riconquista di Arsal (provincia della Beqaa) da parte di Hezbollah sui miliziani dell’Isis con il ritorno dei confini tra Libano e Siria in mano ai Governi di Beirut e Damasco, il processo di “stabilizzazione” del conflitto siriano, l’eliminazione territoriale del Daesh e le nuove pressioni politiche di Beirut hanno aperto nuovi interrogativi sul futuro del milione e mezzo di siriani nel Paese levantino. Un futuro incerto, senza garanzie e protezioni di alcun tipo. Per provare a capirlo meglio, The Submarine ha intervistato Friedrich Bokern, direttore del network Relief&Reconciliation: una rete internazionale fondata ad inizio 2013 in risposta alla crisi siriana grazie ai consigli di Padre dall’Oglio, impegnata nell’Akkar, una regione del Nord del Libano.

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In quale atmosfera vivono i rifugiati siriani attualmente? Credi che stia nascendo la volontà di un ritorno in patria o è ancora troppo presto?

La situazione dei profughi siriani in Libano è peggiorata drammaticamente nel corso dell’ultimo anno. Se all’inizio del 2016 era comune sentirsi dire “Ritorneremo e ricostruiremo il Paese”, oggi, dopo la sanguinosa battaglia di Aleppo, le uniche frasi di speranza sono rivolte ad una ricollocazione in Europa. C’è paura. Paura di essere deportati in Siria, dove i rifugiati affronterebbero possibili persecuzioni da parte dei lealisti di Assad. Senza garanzie di sicurezza e protezione, non ci potrà essere un “ritorno” dei civili in Siria.

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Le forze siriane e libanese controllano adesso l’interezza dei confini tra i due Paesi. Pensi che Beirut tenterà di spingere i rifugiati verso un “ritorno”? Assad non sembra aver fretta…

Hezbollah, la milizia libanese alleata del regime di Assad, sta sicuramente cercando di forzare un “ritorno” dei rifugiati. Resta da capire se anche il Governo di Beirut adotterà la stessa linea politica oppure la rigetterà. Posso affermare che nessuno dei rifugiati, ricollocati fino ad ora da Hezbollah, ha deciso volontariamente di lasciare il Libano. Inoltre l’UNHCR ha ufficialmente condannato questa “deportazione”. Una “deportazione” in zone controllate dal regime, dove se da una parte è vero che non si spara più, dall’altra i rischi di ritorsioni sono ancora alti.

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Quali mezzi potrebbe utilizzare Beirut per accelerare il ritorno in Siria?

Dall’esperienza recente della zona di Arsal abbiamo visto che i rifugiati non hanno avuto scelta. Sono stati accompagnati al confine con una pistola alla tempia e gli è stato intimato di lasciare il Paese. Non penso che sia questo il modello che il Governo libanese voglia utilizzare, sarebbe comunque una grave violazione dei diritti umani e degli accordi tra la piccola repubblica levantina e la comunità internazionale. Credo però che la pressione locale sui rifugiati aumenterà esponenzialmente, soprattutto per la vicinanza delle elezioni parlamentari.

Esercito e polizia potrebbero essere un mezzo per perseguire una politica di pressione?

Nell’ultimo periodo c’è stato un peggioramento della retorica di alcuni Partiti nei confronti dei rifugiati e anche l’opinione pubblica libanese ne ha risentito. Non credo però che esercito e polizia abbiano aumentato la pressione. O almeno non nella zona dell’Akkar. Secondo me stiamo assistendo al tentativo di forze politiche locali di cavalcare il malcontento dell’elettorato per raggiungere guadagni economici dai donatori internazionali. A mio avviso l’operato delle autorità libanesi non è da criticare. Stanno facendo del loro meglio per far fronte alla crisi.

Stiamo facendo una campagna di crowdfunding per riuscire a tenere a galla the Submarine anche l’anno prossimo: se ti piace il nostro lavoro, prendi in considerazione l’idea di donarci 5 € su Produzioni dal bassoGrazie mille.

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E se le forze politiche di Beirut che vorrebbero forzare un “ritorno” dei profughi prendessero il sopravvento, quali potrebbero essere le conseguenze?

Intanto i rifugiati cercherebbero delle alternative. Le persone che temono per la propria vita sono imprevedibili. Potremmo assistere ad un flusso verso le principali città e i campi profughi palestinesi. Luoghi più difficili da controllare e quindi al sicuro da possibili retate della polizia. Poi ci sono i barconi…

Credi che si potrebbe riaprire la rotta turca?

Sicuramente. Coloro che sono in grado cercheranno certamente di raggiungere la Turchia. Il tragitto tra Tripoli e Marsin è diventato molto più difficile da percorrere da quando la Turchia ha imposto gli obblighi di visto, ma la rotta non è chiusa. Poi ci sarà chi cercherà di raggiungere quei paesi che non hanno obblighi di visto, come l’Ecuador. Insomma il fatto è semplice: vogliono vivere e faranno di tutto per mettere in sicurezza la propria famiglia.

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Abbiamo parlato di opinione pubblica libanese, ma qual è lo stato della convivenza tra siriani e locali nell’Akkar?

L’Akkar è la regione più povera del Libano e sta ospitando il maggior numero di rifugiati pro capite. E’ anche una delle poche aree miste del Paese, dove da secoli musulmani e cristiani convivono fianco a fianco. Ci sono naturalmente delle tensioni, ma il senso di ospitalità e solidarietà è molto più forte che in altre regioni. Sembra un laboratorio per il futuro della Siria: un modo per vedere come comunità diverse riescono a coabitare nonostante il pesante passato. In questo luogo siriani e libanesi, sunniti, cristiani e alauti hanno trovato un modo per costruire un futuro insieme. È un equilibrio fragile, necessita di sostegno, ma è pur sempre una prima speranza per tutta la regione.