Cosa c’è di sbagliato nel Corriere delle buone notizie

Insieme al Corriere è uscito ieri in edicola il primo numero di un nuovo inserto settimanale, interamente dedicato alle “buone notizie.”

Cosa c’è di sbagliato nel Corriere delle buone notizie

Insieme al Corriere della Sera è uscito ieri in edicola il primo numero di un nuovo inserto settimanale, interamente dedicato alle “buone notizie.”

Il titolo è proprio questo — Buone notizie — con un sottotitolo che in un universo parallelo è sicuramente il nome di una coalizione di centrodestra capeggiata da Berlusconi: L’impresa del bene.

L’inserto è gratuito — doverlo pagare sarebbe davvero una cattiva notizia — ed è stato presentato con grande orgoglio dal principale esponente del giornalismo iper-glicemico all’italiana, Massimo Gramellini. In questi termini:

Come mi disse una volta Andrea Bocelli, se la razza umana non si è ancora estinta è perché ogni giorno nel mondo il numero delle azioni positive supera quello delle azioni negative. Magari di poco, ma lo supera. Dai media esce invece il quadro distorto di un’umanità che pensa soltanto alla sopraffazione e al potere. Anche sui social abbondano il cinismo e l’invidia travestita da indignazione.

Da questo deriverebbe, insomma, il bisogno di una pubblicazione apposita, per “bilanciare” l’eccesso di cattive notizie nella copertura standard dei giornali.

Ma quali sarebbero le “buone notizie”? Il settimanale restringe esplicitamente il cerchio: storie di volontariato, “imprese sociali,” filantropia, e tutto ciò che viene rubricato a grandi linee dentro la categoria del “Terzo settore.”

“Attraverso le storie, i volti, i problemi dei volontari d’Italia, Buone Notizie racconterà anche le storie, i volti, i problemi delle persone che vengono raggiunte da questo esercito del bene” (corsivo mio), ha dichiarato presentando la testata Elisabetta Soglio, caporedattrice del Corriere.

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Tra le storie che si incontrano sul primo numero (o nella versione online) ci sono: Progetto Quid, una cooperativa sociale che recupera gli scarti di tessuti di grandi aziende per farne abiti firmati (titolo: “Ago, filo e riscatto. Le donne di Anna”); Rulli Frulli, un gruppo di settanta musicisti giovanissimi che con strumenti autoprodotti è andato in tour nelle zone terremotate del centro Italia; i viaggi ad Haiti di Martina Colombari per beneficenza, in un articolo che si sarebbe potuto intitolare “Martina Colombari scopre i poveri”; l’organizzazione no-profit di Javier Zanetti in Argentina. E così via.

Il tono dominante è quello di una pubblicità ispirazionale — viene in mente, per esempio, il vecchio spot “progresso” sul Made in Italy diffuso due anni fa per iniziativa del Ministero dello Sviluppo Economico. Il sottinteso di partenza è sempre lo stesso: il mito dell’eccellenza italiana, con cui ci piace raccontare che, nonostante il disastro economico e civile in cui ci troviamo, sotto sotto restiamo sempre un “grande” paese, capace di “grandi” cose. Una narrazione che è stata parte integrante della comunicazione berlusconiana — uno che le cattive notizie ha voluto far finta di non vederle fino all’ultimo — e poi travasata senza grandi differenze nello storytelling renziano — basta pensare a qualsiasi Leopolda o a quella grandiosa iniziativa del Ministero della Cultura, troppo presto dimenticata, che fu Very Bello.

Se si riesce a sopravvivere alla coltre di retorica motivazionale che fa da tono dominante a tutta la pubblicazione, al paternalismo e all’onnipresenza della “beneficenza borghese” — gli ultimi sono sempre raccontati dal punto di vista del filantropo di turno che va ad aiutarli — il Corriere delle buone notizie contiene anche alcuni reportage ben fatti e interessanti.

Ma la questione è di principio: è davvero compito della stampa farsi megafono di storie e iniziative già coperte ampiamente dalla pubblicità e dalla pubblicistica governativa?

Il compito del giornalismo dovrebbe essere, piuttosto, quello di fare da contrappeso alle narrazioni positive a senso unico: un compito di denuncia, di watchdog, come si usa dire nei paesi anglosassoni. Se si raccontano le “cose brutte” — adattiamoci a questo lessico da quinta elementare — non è per disfattismo, o per fare i gufi, ma per illuminare una parte di realtà sotto-rappresentata e stimolare un miglioramento — che sia soltanto sotto forma di presa di coscienza da parte dell’opinione pubblica, o di intervento politico vero e proprio.

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La stessa differenza tra “buone” e “cattive” notizie non ha alcun senso: l’unica differenza è tra notizie e non–notizie (e la pubblicità rientra appunto in quest’ultima categoria). L’idea che i media siano eccessivamente concentrati sulle cattive notizie riguarda infatti non il contenuto delle notizie stesse — che o sono vere o sono false, ed è l’unica cosa che deve interessare — ma il risalto che viene loro dedicato e il modo in cui vengono trattate. È un problema che investe soprattutto il campo della cronaca nera, da sempre serbatoio favorito del giornalismo di cattiva qualità, e con grande successo di pubblico — per ragioni che sono state studiate anche dal punto di vista psicologico. L’abbiamo visto nelle ultime settimane con la pessima copertura giornalistica dedicata ai casi di stupro di Rimini e Firenze. Insomma, un conto è dare “cattive notizie”, un conto è diffondere allarmismo — magari in base a una precisa agenda politica o convinzione ideologica.

Ancora Gramellini, nel suo editoriale, si chiede:

Ma è vero, c’è stato un tempo in cui le buone notizie non facevano mai notizia. Forse ce n’erano troppe in giro e mancava loro il requisito primario di qualsiasi notizia: l’eccezionalità. O forse quelle brutte sono sempre state più comode da scrivere e più confortevoli da leggere: paragonandosi ai cattivi ci si sente più buoni. Senza contare che la morale prevalente considerava disdicevole mettere in piazza gli slanci positivi. Quasi che il bene, come la ricchezza e la bellezza, fosse un’esagerazione di cui vergognarsi.

O forse perché di storie edificanti e moraleggianti sono già piene le prime serate di Rai1.