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Pod zemljom è un progetto di Martina Scalini, Mario Blaconà, Valerio Casanova e Gabriele Camilli, realizzato grazie a FuoriRotta. Dal 25 agosto all’8 settembre, un viaggio attraverso i Balcani lungo i sentieri dimenticati delle mine antiuomo, tra i fantasmi della memoria dell’ex-Jugoslavia. Qui tutte le puntate.


Serbia, 31 agosto – 3  settembre

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Partiamo da Brčko di mattina presto e, dopo una colazione bosniaca a base di pita al formaggio, ci dirigiamo verso la Serbia. In Serbia non ci sono campi minati, ma ci arriviamo seguendo le tracce di un volantino che allerta i migranti, che passano per i boschi croati, circa la presenza di mine antiuomo ancora attive. Ed è così che arriviamo a Bogovađa, un villaggio sconosciuto non molto lontano da Belgrado, dove è presente la sede di uno dei 18 campi profughi governativi sparsi per tutta la Serbia.

Qui abbiamo appuntamento con Silvia Maraone, che da più di vent’anni vive e opera nei Balcani, prima durante i conflitti in ex-Jugoslavia e ora, per IPSIA, l’Ong delle ACLI, si occupa di profughi. “In Serbia ci sono circa 7000 persone bloccate che stanno cercando di andar via. C’è una lista d’attesa istituita nei campi profughi che permette il transito in Ungheria: passano cinque persone alla settimana in tutto il paese. Chi non vuole aspettare e ha i soldi prova a passare con l’aiuto degli smuggler, i trafficanti di base a Belgrado. In questo momento la tariffa è di 1500 euro per un passaggio, ma è un’economia che si autoalimenta. I trafficanti spesso hanno accordi con chi sta alla frontiera, e hanno tutto l’interesse perché chi prova a passare venga rimandato indietro.”

“In Serbia ci sono circa 7000 persone bloccate che stanno cercando di andar via. Passano cinque persone alla settimana in tutto il paese.”

Silvia ha un blog su cui racconta le proprie esperienze e monitora una realtà al confine con l’Unione Europea che molti trascurano, specialmente dopo la chiusura della balkan route, la rotta migratoria via terra che dalla Turchia conduceva all’Ungheria passando per la Serbia — rotta già nota per i traffici illegali di droga.

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Nel settembre 2015 l’Ungheria chiude le frontiere alzando un muro di filo spinato, e di colpo il flusso di migranti si sposta verso il confine serbo-croato. I boschi attorno alla parte settentrionale del confine erano all’epoca ancora pienamente minati dalla guerra nei Balcani di vent’anni prima. È così che gente in fuga dai conflitti medio-orientali si è trovata di fronte allo spettro dell’ultima zona di guerra europea, un conflitto sotterrato nella memoria collettiva. Le associazioni e le Ong distribuirono del materiale informativo in varie lingue con cui mettere in guardia i migranti. È uno di questi volantini che mostriamo a Silvia: “Questi volantini sono comparsi per la prima volta nell’autunno del 2015, e servivano a informare chi attraversava i campi e le foreste. Poi già da novembre dello stesso anno è stato istituito un meccanismo di protezione delle persone che attraversavano la rotta, con l’individuazione di specifici entry point ed exit point. Le persone hanno smesso di attraversare a piedi e hanno avuto la possibilità di utilizzare mezzi pubblici. Questo fino al 19 marzo del 2016, con la chiusura ufficiale della rotta balcanica, e l’inizio dei traffici illegali”.

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Quello di Bogovađa è uno dei campi migliori in Serbia. Piccolo, nessun problema di sovraffollamento, moltissime famiglie, pochi single men. I siriani sono pochissimi, perché si fermano in Grecia dove le procedure per loro sono più rapide. Qui ci sono persone che provengono soprattutto dall’Afghanistan, dall’Iraq, dal Pakistan e da alcuni paesi africani, gente che spesso ha affrontato torture e violenze ma le cui richieste d’asilo vengono spesso respinte. Parlando con alcuni di loro ci rendiamo conto che, sebbene il campo funzioni a dovere e garantisca una vita dignitosa, queste persone sono bloccate in una routine alienante oltre la quale non si riesce a intravedere una via d’uscita.

Nessuno di loro vuole rimanere in Serbia, tutti più o meno sperano di riuscire ad arrivare in Europa.

“Le persone che viaggiano ora sono molto povere sia economicamente sia culturalmente. Vivono di passaparola e di informazioni sbagliate, partono sperando di trovare il paese di Bengodi e poi si trovano a vivere in condizioni inumane. Capita che facciamo dei giochi qui al campo, e alcuni di loro non riescono nemmeno a identificare la Germania su una cartina geografica. Altri pensano che facendosi registrare in Croazia poi potranno viaggiare per tutta l’Europa, ma la Croazia non è in Schengen. C’è una doppia responsabilità: da una parte i paesi non fanno nulla per aiutare queste persone a orientarsi, dall’altra loro sono facile preda di manipolazioni”. E una volta che queste persone perdono i documenti o il cellulare può capitare che finiscano nelle mani sbagliate. “Specialmente nel caso dei minori non accompagnati che viaggiano allo sbando. Sono tutte facili prede per i traffici di organi e di minori”.

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Dopo una giornata con Silvia e i bambini del campo ci salutiamo, consapevoli di aver visto in faccia il presente di molte persone, e ce ne andiamo, ripensando alle parole di un giovanissimo ragazzo dagli occhi lucidi: “Voi venite qui, state un giorno, ma poi potrete tornare in Italia, noi siamo qui ogni giorno senza sapere quando ce ne potremo andare.”

Periodicamente qualcuno lascia il campo per recarsi sul confine ungherese, croato o, più recentemente, rumeno, con la speranza di riuscire ad attraversarlo.

“I go game,” dicono, perché passare dall’altro lato ha quasi la fisionomia di un gioco, di un flipper, di un “ritenta, sarai più fortunato” dopo essere stati pestati e ricacciati indietro dalla polizia di frontiera. In questo momento la maggior parte di chi prova ad arrivare in Europa, attraverso la Croazia, lo fa nell’area attorno a Šid.

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Šid è una cittadina minuscola e insignificante. Stiamo cercando qualcuno che ci possa spiegare come funzionano gli attraversamenti, e arriviamo nell’area della stazione dove troviamo un movimento di persone nei giardini intorno. Qui incontriamo Zacharie, un ventenne algerino che si offre di accompagnarci a cercare i volontari che di solito organizzano pranzo e cena per loro.

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Ci spiega che vive nella “foresta”, ovvero nei campi, da sette mesi, insieme a tutti gli altri che abbiamo visto. Ha provato il game almeno una ventina di volte nascondendosi nei treni, nei camion, andando a piedi; mai con un trafficante, perché non ha soldi. Quando scopre che siamo italiani ci dice che è riuscito addirittura ad arrivare a Bari nascosto in un furgone, ma lì è stato subito ricacciato indietro. Mentre parla lo seguiamo camminando tra i binari. Di tanto in tanto saluta qualcuno che arriva nell’altro senso, sempre scansando i treni merce che camminano a passo d’uomo. Due ragazzi sono morti schiacciati tra i binari, ci dice. Erano sotto effetto di oppiacei. “Ma è anche colpa loro che non fanno attenzione”, aggiunge indicando il conducente di un treno che ci passa accanto suonando. Gli chiediamo se è qui da solo e lui ci risponde che ha tanti amici conosciuti qui, ma non è venuto con la famiglia. “Sto andando dai miei due fratelli che vivono a Parigi, nel diciottesimo. Noi algerini non siamo come i pakistani o gli afghani che vogliono andare in Europa con la famiglia per sistemarsi: noi vogliamo vivere”.

Più tardi riusciamo a incontrare Bruno, spagnolo, uno dei volontari di No Name Kitchen, l’associazione spagnola informale che soddisfa i bisogni primari di chi si accampa al confine distribuendo del cibo da mattina a sera. “Qui sono tutti single men – ci dice Bruno – e sono tutte persone che pur di provare ad attraversare scelgono di vivere in condizioni misere, fuori dai campi ufficiali. Noi abbiamo semplicemente scelto di dar loro da mangiare perché nessuno lo faceva”.

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No Name Kitchen è fatta di volontari provenienti da tutto il mondo e ha base in un appartamento a Šid dove c’è una dispensa, uno spazio per cucinare in enormi pentoloni e poche stanze in cui dormono una ventina di persone. La vita di Bruno e dei volontari ruota attorno al prendersi cura di questi ragazzi, garantendo due pasti caldi al giorno, ma anche scarpe, vestiti, docce, ed energia per ricaricare i cellulari. Il loro lavoro è possibile solo grazie alle donazioni, ma spesso sono loro stessi a contribuire. Bruno ci racconta che molti ragazzi che riescono ad arrivare in Croazia vengono poi rimandati indietro, anche quando avrebbero l’obbligo di registrarli all’interno del proprio territorio.

Alle sei di sera assistiamo alla distribuzione del cibo. I contenitori carichi e caldi di cibo sono trasportati in un furgoncino bianco fino a un rudere vicino alla stazione; ad attenderlo ci sono tantissimi ragazzi, giovanissimi migranti.

“Questa è una delle cose più belle dell’esperienza della cucina, la condivisione tra noi volontari e loro. Quando eravamo qui era ancora più forte”.

Siamo alle cosiddette barracks dietro la stazione di Belgrado, dove incontriamo Mireia, una videoartist e attivista di No Name Kitchen. A maggio di quest’anno le barracks gestite dall’associazione spagnola sono state demolite e ora ci sono solo macerie. 

“Qui c’era la cucina, era a due piani, e al piano di sopra c’era il deposito dell’acqua. Dopo la cucina c’erano le docce che avevano costruito alcuni volontari britannici. E qui invece c’era un giardino bellissimo, dove le persone giocavano a carte o a scacchi”. Mireia ci spiega che quella di costruire un accampamento nel cuore della città era stata una decisione forte e simbolica. La demolizione, oltre a essere un tentativo di mettere la polvere sotto al tappeto, è rientrata all’interno di un progetto urbanistico di riqualificazione dell’area a ridosso del fiume Sava: il Belgrad Waterfront, un piano per costruire edifici di lusso con soldi provenienti direttamente dagli Emirati Arabi.

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“Questo enorme progetto di gentrificazione di fianco era un cantiere che non si fermava mai, ma anche da quest’altra parte non ci fermavamo mai. In mezzo c’erano questi pannelli che, scherzando, chiamavamo “la barriera”, come in Game of Thrones. Erano due luoghi uno di fianco all’altro che rappresentavano due cose molto diverse. Purtroppo è abbastanza evidente chi ha vinto”. In qualche edificio rimasto in piedi intravediamo dei materassi. Ci sono ancora migranti che vivono tra le rovine, in condizioni disastrose, e che si nascondono dalla polizia.

Lasciamo la Serbia sapendo di aver capito qualcosa in più sul prendersi cura dell’altro perché è un senso di giustizia che te lo chiede e non un ritorno di utili, ma anche, ancora una volta, abbiamo visto l’estrema fragilità di tante vite lasciate in attesa, che subiscono un’Europa che ritrova la propria identità solo nel produrre confini, ovvero limiti.


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