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Una buona parte del progetto di Gréaud cerca di sottolineare la difficoltà, evidente, di cercare una linea di demarcazione nitida per separare concetti come Vero e Falso, Realtà e Fantasia.

Pensavo che virate intellettuali alla Jean Baudrillard fossero passate di moda — mi riferisco a cose tipo “Simulacra and Simulation,” oppure robe alla Putnam stile “cervelli in una vasca”. Mi sbagliavo.

È il 16 agosto 2016. Viene presentato al LACMA (Lacma’s Bing Theater), a Los Angeles, il nuovo lavoro di Loris Gréaud: Sculpt. Un film che si impone come una “scultura sociale dematerializzata,” un’opera–fiume in rosso — rosso carminio biomorfo, per essere precisi — e nero che non solo risulta, a conti fatti, un delizioso delirio razionale, ma anche una sorta di testimonianza della vacuità del nostro mondo.

Attraverso sperimentazioni sempre più funamboliche, Loris si spinge oltre radicalizzando il concetto di “immagine in movimento”. Alla prima, infatti, tutti i posti a sedere del LACMA vengono rimossi (sono 600), affinché ne rimanga solo uno. Uno spettatore per volta per un film di 2 ore circa che viene proiettato ininterrottamente per tutta la giornata (una cosa alla “metodo Ludovico Van” di Arancia Meccanica). Questa però è solo una delle versioni della pellicola. Quella di cui parlo io dura di meno, 40 minuti, ed è stata presentata in occasione della Biennale di Venezia. Il contenuto concettuale e narrativo rimane il medesimo; Gréaud si è limitato, nelle varie versioni, a mutarne il ritmo attraverso le fasi di montaggio.

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C’è una storia? Sì. No.

Willem Dafoe è un collezionista di desideri, pulsioni e sentimenti umani. Li divora e ne è divorato. Tutto è avvolto da una luce così ingombrante da risultare la co-protagonista della storia. La macchina da presa si muove come scossa da primitivi fremiti di vita. I The Residents, che curano la colonna sonora, invocano demoni che danzano inquieti sopra le teste dei presenti nella sala. In pochi secondi si è all’interno della prosopopeica e ancestrale libido gréaudiana. Sento la voce di Dafoe, è una voce calda e veloce, subordinata dalla fame di Mondo. Il suo sguardo ci guida all’interno di questo incubo surreale (e surrealista) in cui l’uomo si scompone, viene osservato da più punti di vista, si perde in se stesso per ritrovarsi in un mondo che non riconosce più — il nostro.

Una buona parte del progetto di Gréaud cerca di sottolineare la difficoltà, evidente, di cercare una linea di demarcazione nitida per separare concetti come Vero e Falso, Realtà e Fantasia. Ci muoviamo nel regno della contraddizione e dell’incertezza, un regno in cui ogni punto fermo viene messo in discussione; quasi che ci fosse un Genio maligno impazzito che ci inganna. La realtà e l’Io vengono lacerati e fratturati, si ha quasi l’impressione di essere frutto dell’immaginazione di qualcuno, di Defoe, di Gréaud; non saprei dirlo, ma il dubbio, durante la proiezione, arriva. In una sequenza viene inquadrata la sacerdotessa di un tempio che maledice il rotolo di una pellicola cinematografica. (Che sia la pellicola che viene proiettata?).


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Gréaud ha già lavorato a simili e acrobatici lavori/esperimenti sul concetto di finzione — di fictum direi, nella traduzione più letterale — quando, nel 2006, alla convention di Frieze, ha presentato delle installazioni così piccole da risultare invisibili ad occhio nudo, così come le parole di un libro che ha scritto successivamente: invisibili. In seguito ha esposto un corpus di opere che è stato poi distrutto da altri artisti (su richiesta di Loris Gréaud): non c’è limite alla decostruzione dell’irrealtà (l’arte) di fronte alla finzione (la realtà che conosciamo).

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Il punto, tornando alla modalità attraverso cui viene proiettato il film — a Venezia rimarrà al Teatrino di Palazzo Grassi solo per qualche giorno (fino al 9 settembre) — è che il successo, così come il suo perdurare nel tempo e nello spazio, non sta nella possibilità di raggiungere un vasto pubblico direttamente, anche attraverso i nuovi canali streaming offerti dalla tecnologia, ma rimanere e stagnare in una memoria collettiva costituita dal racconto, dal riporto, come anche, in questo caso, da una testimonianza scritta — una sorta di memento mori. Il suo pregio sta, oggi più che in passato, nel fatto di essere una rarità, un pezzo unico inimitabile e non riproducibile in un mondo fatto di oggetti costruiti in serie.

“Sta giocando con la verità,” dice Michael Govan (direttore del LACMA), “e con il modo in cui conosciamo le cose… In un medium moderno, sta facendo qualcosa che viene immediatamente perso”. Anche se, in realtà, il lavoro non svanirà nel nulla — o meglio, non rimarrà sospeso solamente all’interno di una memoria collettiva — perché infatti Gréaud, oltre al re-editing della pellicola (tra le copie questa presentata a Venezia), distribuirà delle copie bootleg su DVD (quasi ridicolizzando il progetto iniziale). Non contento ha poi deciso di distribuire sezioni tagliate della pellicola nel dark web attraverso una fitta e sconosciuta rete di hacker.

C’è chi vedrà uno Sculpt, c’è chi ne vedrà un altro, differente, chi un altro ancora. Ci saranno versioni contrastanti della stessa cosa, differenti voci e opinioni di uno stesso fatto, con lo stesso nome: Sculpt. Un fatto del reale che ha ragione d’essere nell’opinione. Non è diventato forse questo, ormai, il mondo?