Pod zemljom è un progetto di Martina Scalini, Mario Blaconà, Valerio Casanova e Gabriele Camilli, realizzato grazie a FuoriRotta. Dal 25 agosto all’8 settembre, un viaggio attraverso i Balcani lungo i sentieri dimenticati delle mine antiuomo, tra i fantasmi della memoria dell’ex-Jugoslavia. Qui tutte le puntate.
Brčko, Bosnia-Herzegovina, 30 agosto
Prima di incontrare Duško, a Sisak abbiamo parlato con alcuni membri del CROMAC, l’ente governativo croato per lo sminamento, per capire quale sia l’effetto delle mine sul territorio. Sisak non ha nulla a che fare con la Croazia costiera, la parte più conosciuta e turistica: qui siamo nell’entroterra, tra le case in mattoni e i fori delle granate sulle facciate.
I membri del CROMAC ci accolgono con molta gentilezza, con tanto di presentazione Power Point per non dimenticare nulla e dirci tutto. L’impressione è che non vedano l’ora di mostrare al mondo ciò che fanno, non per una questione di vanità, ma perché sentono che la loro emergenza è costantemente ignorata dai media, anche se la situazione, secondo quanto ci racconta il direttore (Mr Director, come lo chiama sempre il traduttore) è tutt’altro che risolta.
Il CROMAC non riceve aiuti internazionali (tranne qualche sporadico finanziamento dall’Ue) dal 2004, quando l’estensione delle mine presenti sul territorio è stata ridotta da 13000 km quadrati a 1000 km quadrati. Da allora le azioni di sminamento sono portate avanti con fondi esclusivamente nazionali. La deadline imposta dall’Unione Europea dovrebbe essere il 2019, ma probabilmente, ci dicono, non si farà in tempo.
Il termine più frequente che usano per descrivere le mine antiuomo è “evil product”: qualcosa che dopo venticinque anni dalla sua creazione può ancora esplodere come se fosse stata fabbricata il giorno prima
Durante la chiacchierata il termine più frequente che usano per descrivere le mine antiuomo è “evil product”: qualcosa che dopo venticinque anni dalla sua creazione può ancora esplodere come se fosse stata fabbricata il giorno prima. Un modo per dire che quando una guerra comincia non è con la parola “fine” che smette di produrre i suoi effetti.
Poi siamo di nuovo in viaggio, verso la Bosnia-Herzegovina. Varcata la frontiera, verso sera, comincia un temporale piuttosto violento che mette a dura prova la nostra Jeep. Le strade sono strette e immerse nelle montagne, che battute dalla pioggia alzano una coltre di oscurità che dai nostri finestrini sembra assoluta. L’arrivo è faticoso, ma finalmente entriamo in Banja Luka, la seconda città più importante della Bosnia dopo Sarajevo, a maggioranza serba.
Il giorno dopo da Banja Luka proseguiamo fino a Brčko, una città ai confini con la Croazia e non molto lontana dalla Serbia: un non-luogo di frontiera. Qui incontriamo Svetlana e Ivo, rispettivamente direttrice organizzativa e project manager dell’associazione para-governativa Posavina Bez Mina, che si occupa dello sminamento in molti territori della Bosnia, tutt’oggi il luogo più minato di Europa, con una media di sette morti all’anno.
Prima di andare a vedere i campi minati incontriamo anche il direttore regionale di BHMAC (Bosnia-Herzegovina Mine Action Center). “Spesso il problema più grande sono le persone che tolgono i cartelli di pericolo,” ci spiega, “mettendo così a repentaglio la vita di tutti. Abbiamo provato a forarli, così da evitare che le persone li rubino per riparare i tetti — è questo l’uso più comune — ma non sempre funziona.”
Ancora una volta ci sorprende quanto questa situazione, per noi lontana e carica di tensione, sia ormai integrata nel vivere quotidiano di queste persone: un altro grado di separazione, un altro modo di intendere il valore della propria vita.
Svetlana vuole mostrarci il lavoro dell’associazione, e per farci capire come contribuiscano a rendere più sicure le proprie case ci porta sui campi minati, dove le attività di sminamento vanno avanti ogni giorno sotto le nuvole di terra dei macchinari. Metri e metri di cordoni gialli che delimitano le zone da sminare o lo zone già sminate.
Ci presentano il capo sminatore della zona, un uomo di mezza età ricoperto di protezioni anti esplosive: un giubbotto con imbottitura di piombo, un casco e l’immancabile mimetica. È contento, sono venute delle persone dall’Italia solo per filmare il suo lavoro.
Sul campo scopriamo che Ivo durante la guerra faceva parte di un corpo speciale dell’esercito incaricato di interrare mine antiuomo, mentre ora, dopo la guerra, si occupa di sminamento “per mettere a disposizione la sua conoscenza,” ci dice. È una storia abbastanza comune tra gli sminatori in Bosnia, ma non per questo meno difficile.
Gli chiediamo, senza pensarci troppo, perché prima mettesse mine e ora invece le toglie. Ci risponde con una frase vecchia, ormai ben consolidata dal concetto iconico di banalità del male, che in quel momento non provava nulla, era suo dovere farlo, perché era in guerra e così gli dicevano di fare.
Ma la domanda lo infastidisce: sembra disturbato da questi ragazzi italiani che non sanno nulla di guerra e vengono lì a parlare di emozioni. Lo vediamo mentre parla sottovoce con gli altri sminatori, ma sentiamo confusamente delle parole sparse qua e là dette in tono piuttosto seccato. Noi non capiamo.