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Della frase pronunciata dal poliziotto durante gli sgomberi di piazza Indipendenza tutti si sono concentrati soprattutto sull’invito a “spezzare le braccia.” Ma è la prima parte quella più interessante.

Com’era prevedibile, stamattina quasi tutti i giornali pubblicano in prima pagina la foto dell’agente che accarezza sul viso una donna eritrea in lacrime, sgomberata insieme ad altre centinaia di rifugiati ieri mattina da piazza Indipendenza.

Una scelta precisa, che tenta di ricoprire di melassa l’ultra-violenza ingiustificata che lo Stato ha deciso di dispiegare contro persone indifese, con il plauso di qualcuno. “Ripartire da quella carezza,” si legge su Repubblica, “piccolo gesto di speranza in mezzo ai frantumi della guerriglia urbana.” “La carezza dell’agente che batte la violenza,” così un editoriale sulla Stampa. “Un momento di piccola bellezza nello sfacelo generale.”

È un refrain iconografico moraleggiante che piace parecchio ai media italiani — come quando, nel 2013, una manifestante No-Tav baciò sul casco un poliziotto in tenuta antisommossa, e anche in quel caso le cose non erano esattamente rose e fiori.

Sulla foto della carezza ha già detto abbastanza la diretta interessata, Genet, eritrea, 40 anni, parlando all’Huffington Post. “La usano per mostrare la faccia bella di questa storia, ma la verità è che la polizia ci ha spruzzato l’acqua addosso. Siamo stati buttati via come una scarpa vecchia.” I giornali che stamattina prendono quella foto a esempio di grande baluardo di umanità, di Genet non scrivono neanche il nome. Il che aggrava il fastidioso senso di paternalismo che già trasuda da quel gesto. Come ha scritto Simone Pieranni del manifesto su Facebook, “Qui siamo di fronte a persone politicizzate, che arrivano da ben peggiori situazioni, che ne hanno viste di ogni e che presumibilmente sanno anche gestirsi un livello di scontro politico. Quindi magari meriterebbero protagonismo e non una descrizione per forza di cose ’vittimistica.’”

L’altro dettaglio della giornata di ieri che ha impressionato i commentatori è la frase di un ufficiale di polizia, registrata fortuitamente in un video, che invitava i colleghi a spezzare il braccio a chi tra i rifugiati avesse lanciato qualche oggetto. Il che la dice lunga sulle modalità dello sgombero e sull’atteggiamento delle autorità nei confronti di chi ha la colpa imperdonabile di non avere un tetto sulla testa. Il capo della polizia Gabrielli ha definito “grave” quella frase, annunciando che avrà delle conseguenze — aggiungendo, però, che lo sgombero non deve diventare “la foglia di fico” di chi “ha consentito a un’umanità varia di vivere in condizioni sub-umane nel centro della capitale. E dunque si arrivasse a quello che abbiamo visto.” Come se gli idranti e le cariche violente fossero una soluzione inevitabile e dovuta.

Ma, mentre è francamente difficile stupirsi della violenza gratuita della polizia contro i più deboli, di quella frase è molto più interessante la prima parte: “Questi devono sparire.”

Con brutale franchezza, il poliziotto riassume perfettamente il senso e l’obiettivo degli sgomberi che hanno colpito i rifugiati a Roma in questi giorni: senza la volontà politica di negoziare una soluzione umana per le persone che in quel palazzo abitavano da quattro anni, la questione è stata demandata alla prefettura e gestita come un problema di ordine pubblico — ovvero: buttare la polvere sotto il tappeto, “ripulire” la piazza occupata (da persone che non erano certo contente di vivere per strada), in ossequio all’imperativo del “decoro urbano” che da qualche anno a questa parte ossessiona le amministrazioni pubbliche in tutta Italia.

Non importa cosa faranno, dove andranno: l’importante è che spariscano, perché è la loro stessa presenza visibile a dare fastidio, a mettere in crisi l’immagine della faccia pulita della città, e, soprattutto, a far perdere voti — mentre ieri l’assessore alle politiche sociali del Comune di Roma era irreperibile, in ferie.

Farli sparire: è questo l’obiettivo finale non dichiarato del governo in materia di immigrazione perseguito negli ultimi mesi, con la caccia alle streghe contro le Ong, la criminalizzazione dell’umanitarismo, e l’esultanza per il “calo degli sbarchi,” che significa soltanto che un numero maggiore di persone muore nel deserto o finisce detenuto in Libia. Non è l’exploit di un poliziotto violento, è la politica ufficiale dell’intera Unione Europea, nell’accordo con la Turchia per bloccare la rotta balcanica, non importa a che prezzo: l’importante è che non si vedano.

Per questo è sempre più importante parlare di queste persone, raccontare le loro storie, come quella di Genet, o di Bereket, che ha un contratto precario come venditore di bibite allo stadio Olimpico, o di Sennait, due figlie piccole, che vorrebbe andare in Germania ma non può per via del regolamento di Dublino — come molti dei rifugiati eritrei sgomberati dal palazzo in via Curtatone. Renderli visibili, opporsi a chi li vorrebbe semplicemente rimuovere, insieme alle proprie colpe storiche. Dare loro spazio: perché la loro stessa presenza, l’unica cosa che gli è rimasta, ad essere per loro lo strumento di resistenza più forte.


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