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L’omicidio di uno studente di diciassette anni, Kian Delos Santos, ha scosso profondamente l’opinione pubblica filippina, alimentando il fronte di chi si oppone alla sanguinosa guerra alla droga del presidente Rodrigo Duterte.

In tutto il paese si sono svolte nei giorni scorsi manifestazioni contro la legge marziale e gli omicidi extra-giudiziali di (sospettati) spacciatori e tossicodipendenti, uccisi per strada dalla polizia e spesso da squadroni di vigilantes para-militari, secondo una prassi che va avanti ormai da più di un anno, con un bilancio che, secondo le ultime stime ufficiali, supererebbe le 5000 vittime.

Kian è stato ucciso dalla polizia il 16 agosto, con due proiettili alla testa e uno alla schiena, a Caloocan, nei dintorni di Manila. I poliziotti si sono giustificati dicendo di essere stati minacciati con una pistola, ma nel video di una telecamera di sorveglianza che ha ripreso l’operazione si vede chiaramente che il ragazzo era indifeso. Le sue ultime parole sarebbero state: “Fermatevi, per favore, domani ho un esame.”

Su Twitter l’hashtag #JusticeForKian è diventato virale e lunedì circa 4000 manifestanti hanno sfidato la pioggia e si sono radunati a Manila presso il memoriale della rivoluzione del 1986 che pose fine alla dittatura di Ferdinand Marcos — uno dei punti di riferimento dichiarati di Duterte, che lo scorso novembre ne ha voluto celebrare il funerale con tutti gli onori, trasferendo la sua sepoltura nel Cimitero Nazionale degli Eroi a Manila.

Di fronte alla pressione popolare, lo stesso presidente si è dovuto sbilanciare e ha chiesto un’indagine sull’accaduto, mettendo in dubbio per la prima volta l’operato della polizia — solitamente difesa ai limiti dell’istigazione all’omicidio.

La morte di Kian potrebbe marcare quindi un punto di svolta fondamentale, incrinando il favore popolare di cui l’“uomo forte” Rodrigo Duterte sembra ancora godere.

Parzialmente oscurata sui media internazionali dalla battaglia contro i jihadisti di Mindanao, la guerra alla droga nelle Filippine non si è mai fermata e non ha mai smesso di mietere vittime. Il 16 agosto, il giorno dell’uccisione di Kian, è stato il più sanguinoso dell’anno, 32 morti, nel corso di un’escalation di tre giorni salutata con gioia dal presidente, che per l’occasione ha dichiarato: “Se solo riusciamo a ucciderne 32 al giorno, forse possiamo ridurre ciò che affligge la nazione.”

Abituato al disprezzo dei diritti umani, forte di una guerra che colpisce soprattutto i poveri e gli ultimi delle metropoli, per la prima volta Rodrigo Duterte si trova ad affrontare voci di dissenso anche fra chi finora l’aveva sostenuto.

“Questa non è una guerra contro la droga, è una guerra contro i poveri.” ha dichiarato Tiraha Hassan, Crisis Response Director di Amnesty International. “Troppe persone sono uccise per denaro, accusate di consumare o spacciare con prove a dir poco traballanti.”

Amnesty ha curato un’indagine su 33 casi di omicidio di polizia nelle Filippine, intervistando 110 persone in 20 città. I casi, riguardanti 59 morti, evidenziano esecuzioni extragiudiziali. Le testimonianze raccolte dalla ONG raccontano di raid polizieschi su persone disarmate, conclusi con esecuzioni sommarie, anche di chi si era arreso alle forze dell’ordine. Spesso la polizia produrrebbe prove e rapporti falsi per raccontare una seconda verità di conflitto armato con la malavita che in realtà non sta avvenendo.

Il caso di Kian Loyd Delos Santos conferma sostanzialmente le indagini di Amnesty: la telecamera a circuito chiuso non ha soltanto registrato l’aggressione al ragazzo, disarmato e passivo, ma anche il tentativo di manomissione della scena del crimine da parte delle forze di polizia stesse.


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Due notti fa, in una conferenza stampa, anche Duterte ha ammesso che la registrazione dell’omicidio mette in luce il comportamento sospetto della polizia. Ma rispetto alla retorica dei morti in strada le minacce alla polizia sono state molto più timide: “Sarà necessaria un’indagine, e se verranno trovati colpevoli, dovranno andare in prigione.”

In una testimonianza rilasciata a giornalisti di Reuters, Arturo Lascanas, ex poliziotto filippino, metteva un prezzo sugli omicidi inscenati da guerra alla droga, prezzi che sono saliti vertiginosamente negli ultimi vent’anni, fino a “decine di migliaia di pesos” a vittima: un euro vale 60 pesos filippini, mettendo il costo di una vita attorno ai 500-1000 euro.

Malgrado la conferenza stampa di lunedì del presidente, il problema della legalità sostanzialmente non ha nessuna conseguenza per gli ufficiali filippini — fin dall’inizio della propria presidenza Duterte ha messo in chiaro che la responsabilità, morale e giuridica, della “guerra alla droga” sarebbe stata interamente ed esclusivamente propria, trasformando un progetto per soddisfare il proprio apparato militare e poliziesco in un’operazione diventata fondamentale per il proprio consenso personale.